In Italia la classe dirigente è scomparsa. Così si esprimeva addolorato qualche tempo fa sulla Stampa il professore Gian Enrico Rusconi.
Ma da queste parti c’è mai stata?
L’Abruzzo è stato governato da Roma, in modo più o meno accorto, negli anni miracolosi della prima repubblica, quando la regione più povera del Paese, passo dopo passo, si è ritrovata a non aver bisogno dei sussidi europei, luminosa eccezione in un meridione secolarmente incapace di camminare sulle sue gambe.
In loco agivano i referenti che presidiavano il territorio, organizzavano il consenso, applicavano le direttive romane. Non sono mancate grandi individualità, ma isolate in un sistema abituato a rimettersi al volere del leader che occupava uno scranno al Governo.
Sono trascorsi quasi venti anni dalla fine di quel modo di gestire le pubbliche e secrete cose di queste contrade, ma non s’è vista la nascita di uno nuovo. Si è proseguito come prima a occuparsi di gestione spicciola del potere locale, come se a Roma ci fosse ancora qualcuno a disegnare la strategia per lo sviluppo.
Nel perdurare di questa vera e propria rimozione di consapevolezza politica è accaduto di tutto: è esplosa la spesa sanitaria a fronte di un servizio sempre più carente al cittadino, galoppano le tasse, è tornata a fiorire la pianta malata del campanilismo, l’incendio della crisi consuma un’azienda dopo l’altra, la produttività nelle fabbriche tocca i suoi punti più bassi, l’assetto delle infrastrutture è rimasto fermo al 1992.
Ci troviamo in un pantano da cui nessuno mostra di sapere come uscire, soprattutto perché lo sforzo maggiore pare quello di conquistare più spazio possibile senza darsi pena se il terreno sia infradiciato o asciutto. Tutto sommato, anzi, gli schizzi di fango fanno più scena quando si sollevano.
Nessuno indica una ricetta per il presente, si evoca a tinte naïf un futuro in cui riprenderà lo sviluppo che si spera radioso, ma senza più i toni trionfali di un tempo. Lo si dice quasi col tono di chi pensa in cuor suo “Adda passa’ ’a nuttata”.
In “tanta lungimiranza” s’apparecchia a Roma un federalismo fiscale che non ridistribuisce risorse ma che le taglia, costringendo regioni e comuni ad aumentare le tasse e a far rientrare la spesa.
Cosa accadrà da queste parti a tassazione altissima e a spesa impazzita pare che non riguardi nessuno.
In compenso abbondano le rotatorie, metafora perfetta del dirigere a zonzo. Le hanno piazzate ovunque. Nella zona industriale di Chieti non permettono il passaggio dei trasporti eccezionali diretti alle aziende. Non ci passano. Ma non se ne diano pensiero. Entro qualche decennio i trasporti cambieranno radicalmente. Nel frattempo si arrangino. Pestare i piedi nel pantano assorbe tutto il presente.
Ma da queste parti c’è mai stata?
L’Abruzzo è stato governato da Roma, in modo più o meno accorto, negli anni miracolosi della prima repubblica, quando la regione più povera del Paese, passo dopo passo, si è ritrovata a non aver bisogno dei sussidi europei, luminosa eccezione in un meridione secolarmente incapace di camminare sulle sue gambe.
In loco agivano i referenti che presidiavano il territorio, organizzavano il consenso, applicavano le direttive romane. Non sono mancate grandi individualità, ma isolate in un sistema abituato a rimettersi al volere del leader che occupava uno scranno al Governo.
Sono trascorsi quasi venti anni dalla fine di quel modo di gestire le pubbliche e secrete cose di queste contrade, ma non s’è vista la nascita di uno nuovo. Si è proseguito come prima a occuparsi di gestione spicciola del potere locale, come se a Roma ci fosse ancora qualcuno a disegnare la strategia per lo sviluppo.
Nel perdurare di questa vera e propria rimozione di consapevolezza politica è accaduto di tutto: è esplosa la spesa sanitaria a fronte di un servizio sempre più carente al cittadino, galoppano le tasse, è tornata a fiorire la pianta malata del campanilismo, l’incendio della crisi consuma un’azienda dopo l’altra, la produttività nelle fabbriche tocca i suoi punti più bassi, l’assetto delle infrastrutture è rimasto fermo al 1992.
Ci troviamo in un pantano da cui nessuno mostra di sapere come uscire, soprattutto perché lo sforzo maggiore pare quello di conquistare più spazio possibile senza darsi pena se il terreno sia infradiciato o asciutto. Tutto sommato, anzi, gli schizzi di fango fanno più scena quando si sollevano.
Nessuno indica una ricetta per il presente, si evoca a tinte naïf un futuro in cui riprenderà lo sviluppo che si spera radioso, ma senza più i toni trionfali di un tempo. Lo si dice quasi col tono di chi pensa in cuor suo “Adda passa’ ’a nuttata”.
In “tanta lungimiranza” s’apparecchia a Roma un federalismo fiscale che non ridistribuisce risorse ma che le taglia, costringendo regioni e comuni ad aumentare le tasse e a far rientrare la spesa.
Cosa accadrà da queste parti a tassazione altissima e a spesa impazzita pare che non riguardi nessuno.
In compenso abbondano le rotatorie, metafora perfetta del dirigere a zonzo. Le hanno piazzate ovunque. Nella zona industriale di Chieti non permettono il passaggio dei trasporti eccezionali diretti alle aziende. Non ci passano. Ma non se ne diano pensiero. Entro qualche decennio i trasporti cambieranno radicalmente. Nel frattempo si arrangino. Pestare i piedi nel pantano assorbe tutto il presente.
Marco Presutti
31 gennaio 2011
http://www.quotidianodabruzzo.it/opinioni/lodicoio/506/cercasi-classe-dirigente.html
http://www.quotidianodabruzzo.it/opinioni/lodicoio/506/cercasi-classe-dirigente.html
Nessun commento:
Posta un commento