Ripubblico in questa nota l'intervista per tutti quelli che l'avessero smarrita (io stesso l'ho letta per puro caso, non compro il quotidiano che compilano a Largo Fochetti).
Voglio sottolineare l'importanza di due punti: la rilevanza dalla letturatura italiana dal Duecento al Seicento che oggi si tende a comprimere nei programmi a vantaggio della letteratura successiva (modesta e provinciale), e le ragioni dell'impoverimento culturale dei ragazzi.
Vi lascio alla lettura, seguono alcune mie brevi riflessioni.
UNA VITA DA MANUALE
Le donne al potere è il titolo di un libro di Giorgio Bàrberi Squarotti, classe 1929, uno dei maggiori italianisti contemporanei, docente emerito di letteratura all' ateneo di Torino, autore di un diffusissimo manuale scolastico. L' opera di cui parlavo, appena uscita dall' editore Manni, è una cavalcata all' inseguimento dei personaggi femminili che nutrono le pagine di Ludovico Ariosto e di Giovanni Boccaccio. Il lettore viene accolto in un' isola dove il poeta dell' Orlando furioso ambienta una storia di "femmine omicide" intente a costruire una singolare Repubblica vietata agli uomini: dopo cruente decimazioni, essi sono ammessi unicamente a svolgere mansioni erotiche al servizio del sesso "dominante" (e, sotto questo aspetto, insaziabile). Eroine ugualmente scaltre e vogliose dominano i capitoli che il libro riservaa ciò che potremmo chiamare il "femminismo" boccaccesco. Due grandi della nostra letteratura vengono dunque "raccontati" con un piglio moderno che ne coglie in pieno le ironie e la deliberata sventatezza. Da qui parte il mio colloquio con Bàrberi Squarotti, del quale sono amico da molti anni. Gli ho chiesto che cosa rappresenta per lui quest' ultimo suo volume sulle donne. È uno scherzo, una vacanza, un' evasione? «È il tentativo di guardare alle novelle di Boccaccio e ad episodi dell' Orlando furioso in una prospettiva diversa dal consueto. Specie ora che sono esente da obblighi accademici mi sembra di poter comunicare con libertà ciò che penso e sento. E lo faccio con tanta maggior passione in quanto oggi la critica tende ad occuparsi di letteratura a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, concentrandosi per di più su autori molto modesti. Ciò che viene disertato è la letteratura italiana dei secoli che vanno dal Duecento al Seicento. Dopo di allora, certo, ci sono stati grandi scrittori, ma non più una tradizione rigorosa e continuativa». Tu hai insegnato a Torino per 37 anni, e sei in pensione dal 2003. Mi torna in mente una frase, presa in prestito da Franco Fortini, che spesso ti ho sentito ripetere: la letteratura è un' attività secondaria rispetto al normale ritmo della vita, al mangiare, al dormire, e così via. E tuttavia senza la letteratura, non capiremmo noi stessi e il mondo. Bàrberi Squarotti, sei ancora dello stesso parere? «Ne resto convinto. Non a caso ho sempre insegnato ai miei allievi la necessità della lettura e il piacere della bellezza e della verità. Trovo quel piacere tanto più valido in un momento come l' attuale, tetro e rovinoso, e non solo per la letteratura». Ancora prima che per i numerosi saggi dedicati a grandi nomi delle nostre lettere, tu sei noto come autore di quella Storia e antologia della letteratura italiana (Atlas editore), edita e riedita negli anni: un testo sul quale hanno studiato generazioni di adolescenti. Il "Bàrberi" non è la sola opera del genere, largamente adottata nelle scuole. Basti pensare - esempio illustre - ai tre volumi di storia medievale, moderna e contemporanea, di Rosario Villari, editi a più riprese nella "collezione scolastica" di Laterza. Tornando a te, mi piacerebbe sapere se ti riconosci ancora in quella funzione di educatore "di massa". Che impressione ti farebbe, oggi, mettere piede in un liceo? «Ci vado molto volentieri, quando mi invitano. Amo discutere con i giovani». Ma come li vedi, i licealisti del Terzo Millennio? «Le loro capacità sono esattamente uguali a quelle dei loro coetanei di trenta o quarant' anni fa. Ciò che s' è impoverito sono le basi. L' idea che si vada a scuola soltanto per stare insieme agli altri è nefasta. È svanito il senso che si vada lì per comprendere la storia e i sentimenti attraverso la letteratura, la filosofia, le arti. La nostra era una buona scuola. È andata sempre peggiorando. Mi pare che adesso si sia dispersa». Quando ha cominciato a cambiare in peggio? «È stata la banalizzazione di certe idee del Sessantotto a segnare la svolta verso la rovina. Tutto deve essere facile, piacevole, divertente: ecco lo slogan. Intanto, i figli dei ricchi frequentano le scuole private e imparano. Gli altri vengono tagliati fuori. Io lo so bene, perché da ragazzo appartenevo alla seconda categoria, agli "altri". Studiavamo per emanciparci dalla sfavorevole situazione di partenza. Chi può farlo, oggi?». Oltre che critico di poesia, tu sei poeta in proprio. Ricordo il titolo d' un tuo saggio, a suo modo polemico, Addio alla poesia del cuore. Che cos' è questa "poesia del cuore"? E che cosa significa dirle addio? «Quel mio lavoro riguardava la letteratura del Sette-Ottocento e mostrava i limiti di una poesia di marca patetica, che è di moda ancora oggi». Insomma, esprimevi antipatia o dileggio per chi scriveva versi con il cuore in mano. «Appunto. È sempre qualcosa di inferiore dal punto di vista espressivo. Non a caso Leopardi, che è il contrario di tutto questo- fa cioè una poesia filosofica, di contenuto, non sentimentale o emotiva- diceva: cuore mio taci, non parlare più». Vuoi citarmi un esempio di "poesia del cuore", in Italia, negli ultimi decenni? «Alda Merini. Il suo mi sembra il caso più tipico». Hai studiato a fondo la narrativa italiana del secolo scorso. Se dovessi indicare due nomi, solo due, che consideri fondamentali per il nostro Novecento, chi sceglieresti? «Carlo Emilio Gadda e Stefano D' Arrigo. Hanno reinventato il romanzo. Non il romanzo di moda, di quelli che vengono premiati e dopo un mese è come se non fossero mai esistiti. Quei due parlano invece dell' amore, della morte, della guerra, insistono sui principali aspetti dell' esistenza. Sulla linea, in fondo, inaugurata dall' Iliade e dall' Odissea. Già allora, credimi, c' era tutto. Dopo, si è trattato di variazioni, anche se spesso fondamentali». È quasi un luogo comune accennare al tuo "antistoricismo". Si ricorda un testo che pubblicasti nel 1980, Il romanzo contro la storia. Trattava dei Promessi sposi. In un altro volume, che risale al 1990, ancora sul Manzoni, parlavi delle "delusioni della letteratura". Che intendevi dire? «Sostenevo che la storia è sempre contraddittoria. Ci racconta come sono andate le cose, ma dopo qualche decennio si scoprono altri documenti che spingono a interpretare tutto in maniera diversa. La letteratura, invece, si spinge sul significato, sui "perché". Manzoni, osservavo, non raccontavai fatti. Ne carpiva il senso». Ma perché quell' accenno alle "delusioni della letteratura"? «Quando scrive La colonna infame, Manzoni si rende conto che il romanzo può inventare gli eventi, concludendo per esempio che, alla fine, nonostante tutto, i protagonisti (così accade ai suoi) si sposino. Nella storia il lieto fine non è contemplato. E perciò, secondo me, Manzoni non ha più scritto romanzi. L' ho chiamata la sua delusione». Tu sei il direttore del più monumentale dizionario della lingua italiana, quello in 23 volumi iniziato nel 1961 da Salvatore Battaglia ed edito dalla Utet. Eppure la tua immagine pubblica non è quella di un filologo compassato. A detta dei critici, le tue poesie sono percorse da inquietudini esistenziali, sospese fra allegoria e ironia. Chissà se ti riconosci in questo ritratto. «Sì, mi ci riconosco. L' ironia che mi attribuiscono può dipendere dal fatto che tutto ciò che viviamo e sentiamo è precario. L' importante è parlarne senza tristezza. Anzi, con allegria». - NELLO AJELLO
Ha mille ragioni il professor Barberi Squarotti, ci offre spicchi della sapienza, con la libertà di chi ormai può dire quello che pensa e sente, senza il timore di rendersi invisi ai mastini ringhiosi che presidiano la vita pubblica nei settori della formazione e della cultura.
Straordinario il primo richiamo: occorre tornare a studiare la letteratura italiana che è stata fondamento della letteratura europa, ovvero la letteratura che dallo Stil Novo, Dante, Petrarca, Boccaccio, il Rinascimento arriva al Barocco. Dopo quelle stagioni la nostra letteratura diventa marginale, periferica, emula spennata di Francia, Germania, Inghilterra e America per tacer del resto. Eppure oggi nella scuola si dà rilevanza solo a quanto è più modesto nella vertigine da precipizio che deve condurci al Novecento, come se si dovessero omaggiare chissà quali vette del Parnaso. Si mortificano Ariosto e Tasso perché si possano leggere Vittorini e Calvino.Addirittura si è deciso di anticipare al secondo anno la letteratura dalle origini allo stil novo sempre per il medesimo scopo: occorre leggere la letteratura novecentesca, esemplari modelli di dipendenza francese e americana.
Sul secondo richiamo, ovvero sul perché sia così peggiorata la scuola (ed era una buona scuola in origine) mi pare che non si debba aggiungere nulla. Tutto quello che osserva è dolorosamente vero. A partire dal punto centrale: non sono i ragazzi ad essere cambiati, siamo noi che non li abbiamo formati più come si sarebbe dovuto e potuto. Una consapevolezza che ho maturato da tempo; sono contento di essere confortato da un parere tanto illustre.
Bella la stroncatura sulla poesia del cuore, traboccante dagli scaffali letterari.
Una perla è la riflessione sul significato della letteratura per Manzoni.
Un'intervista da meditare lungamente, una lettura indispensabile per chi insegni letteratura italiana
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