domenica 23 ottobre 2011

Il primato della letteratura dal Duecento al Barocco e le ragioni dello scadimento della scuola. Un grande Barberi Squarotti



Nello Ajello ci ha regalato ieri un'intervista molto interessante al professor Giorgio Barberi Squarotti (La Repubblica, 22/10/11, ppp. 56-57), forse il più illustre tra gli italianisti viventi.

Ripubblico in questa nota l'intervista per tutti quelli che l'avessero smarrita (io stesso l'ho letta per puro caso, non compro il quotidiano che compilano a Largo Fochetti).

Voglio sottolineare l'importanza di due punti: la rilevanza dalla letturatura italiana dal Duecento al Seicento che oggi si tende a comprimere nei programmi a vantaggio della letteratura successiva (modesta e provinciale), e le ragioni dell'impoverimento culturale dei ragazzi.

Vi lascio alla lettura, seguono alcune mie brevi riflessioni.



UNA VITA DA MANUALE


Le donne al potere è il titolo di un libro di Giorgio Bàrberi Squarotti, classe 1929, uno dei maggiori italianisti contemporanei, docente emerito di letteratura all' ateneo di Torino, autore di un diffusissimo manuale scolastico. L' opera di cui parlavo, appena uscita dall' editore Manni, è una cavalcata all' inseguimento dei personaggi femminili che nutrono le pagine di Ludovico Ariosto e di Giovanni Boccaccio. Il lettore viene accolto in un' isola dove il poeta dell' Orlando furioso ambienta una storia di "femmine omicide" intente a costruire una singolare Repubblica vietata agli uomini: dopo cruente decimazioni, essi sono ammessi unicamente a svolgere mansioni erotiche al servizio del sesso "dominante" (e, sotto questo aspetto, insaziabile). Eroine ugualmente scaltre e vogliose dominano i capitoli che il libro riservaa ciò che potremmo chiamare il "femminismo" boccaccesco. Due grandi della nostra letteratura vengono dunque "raccontati" con un piglio moderno che ne coglie in pieno le ironie e la deliberata sventatezza. Da qui parte il mio colloquio con Bàrberi Squarotti, del quale sono amico da molti anni. Gli ho chiesto che cosa rappresenta per lui quest' ultimo suo volume sulle donne. È uno scherzo, una vacanza, un' evasione? «È il tentativo di guardare alle novelle di Boccaccio e ad episodi dell' Orlando furioso in una prospettiva diversa dal consueto. Specie ora che sono esente da obblighi accademici mi sembra di poter comunicare con libertà ciò che penso e sento. E lo faccio con tanta maggior passione in quanto oggi la critica tende ad occuparsi di letteratura a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, concentrandosi per di più su autori molto modesti. Ciò che viene disertato è la letteratura italiana dei secoli che vanno dal Duecento al Seicento. Dopo di allora, certo, ci sono stati grandi scrittori, ma non più una tradizione rigorosa e continuativa». Tu hai insegnato a Torino per 37 anni, e sei in pensione dal 2003. Mi torna in mente una frase, presa in prestito da Franco Fortini, che spesso ti ho sentito ripetere: la letteratura è un' attività secondaria rispetto al normale ritmo della vita, al mangiare, al dormire, e così via. E tuttavia senza la letteratura, non capiremmo noi stessi e il mondo. Bàrberi Squarotti, sei ancora dello stesso parere? «Ne resto convinto. Non a caso ho sempre insegnato ai miei allievi la necessità della lettura e il piacere della bellezza e della verità. Trovo quel piacere tanto più valido in un momento come l' attuale, tetro e rovinoso, e non solo per la letteratura». Ancora prima che per i numerosi saggi dedicati a grandi nomi delle nostre lettere, tu sei noto come autore di quella Storia e antologia della letteratura italiana (Atlas editore), edita e riedita negli anni: un testo sul quale hanno studiato generazioni di adolescenti. Il "Bàrberi" non è la sola opera del genere, largamente adottata nelle scuole. Basti pensare - esempio illustre - ai tre volumi di storia medievale, moderna e contemporanea, di Rosario Villari, editi a più riprese nella "collezione scolastica" di Laterza. Tornando a te, mi piacerebbe sapere se ti riconosci ancora in quella funzione di educatore "di massa". Che impressione ti farebbe, oggi, mettere piede in un liceo? «Ci vado molto volentieri, quando mi invitano. Amo discutere con i giovani». Ma come li vedi, i licealisti del Terzo Millennio? «Le loro capacità sono esattamente uguali a quelle dei loro coetanei di trenta o quarant' anni fa. Ciò che s' è impoverito sono le basi. L' idea che si vada a scuola soltanto per stare insieme agli altri è nefasta. È svanito il senso che si vada lì per comprendere la storia e i sentimenti attraverso la letteratura, la filosofia, le arti. La nostra era una buona scuola. È andata sempre peggiorando. Mi pare che adesso si sia dispersa». Quando ha cominciato a cambiare in peggio? «È stata la banalizzazione di certe idee del Sessantotto a segnare la svolta verso la rovina. Tutto deve essere facile, piacevole, divertente: ecco lo slogan. Intanto, i figli dei ricchi frequentano le scuole private e imparano. Gli altri vengono tagliati fuori. Io lo so bene, perché da ragazzo appartenevo alla seconda categoria, agli "altri". Studiavamo per emanciparci dalla sfavorevole situazione di partenza. Chi può farlo, oggi?». Oltre che critico di poesia, tu sei poeta in proprio. Ricordo il titolo d' un tuo saggio, a suo modo polemico, Addio alla poesia del cuore. Che cos' è questa "poesia del cuore"? E che cosa significa dirle addio? «Quel mio lavoro riguardava la letteratura del Sette-Ottocento e mostrava i limiti di una poesia di marca patetica, che è di moda ancora oggi». Insomma, esprimevi antipatia o dileggio per chi scriveva versi con il cuore in mano. «Appunto. È sempre qualcosa di inferiore dal punto di vista espressivo. Non a caso Leopardi, che è il contrario di tutto questo- fa cioè una poesia filosofica, di contenuto, non sentimentale o emotiva- diceva: cuore mio taci, non parlare più». Vuoi citarmi un esempio di "poesia del cuore", in Italia, negli ultimi decenni? «Alda Merini. Il suo mi sembra il caso più tipico». Hai studiato a fondo la narrativa italiana del secolo scorso. Se dovessi indicare due nomi, solo due, che consideri fondamentali per il nostro Novecento, chi sceglieresti? «Carlo Emilio Gadda e Stefano D' Arrigo. Hanno reinventato il romanzo. Non il romanzo di moda, di quelli che vengono premiati e dopo un mese è come se non fossero mai esistiti. Quei due parlano invece dell' amore, della morte, della guerra, insistono sui principali aspetti dell' esistenza. Sulla linea, in fondo, inaugurata dall' Iliade e dall' Odissea. Già allora, credimi, c' era tutto. Dopo, si è trattato di variazioni, anche se spesso fondamentali». È quasi un luogo comune accennare al tuo "antistoricismo". Si ricorda un testo che pubblicasti nel 1980, Il romanzo contro la storia. Trattava dei Promessi sposi. In un altro volume, che risale al 1990, ancora sul Manzoni, parlavi delle "delusioni della letteratura". Che intendevi dire? «Sostenevo che la storia è sempre contraddittoria. Ci racconta come sono andate le cose, ma dopo qualche decennio si scoprono altri documenti che spingono a interpretare tutto in maniera diversa. La letteratura, invece, si spinge sul significato, sui "perché". Manzoni, osservavo, non raccontavai fatti. Ne carpiva il senso». Ma perché quell' accenno alle "delusioni della letteratura"? «Quando scrive La colonna infame, Manzoni si rende conto che il romanzo può inventare gli eventi, concludendo per esempio che, alla fine, nonostante tutto, i protagonisti (così accade ai suoi) si sposino. Nella storia il lieto fine non è contemplato. E perciò, secondo me, Manzoni non ha più scritto romanzi. L' ho chiamata la sua delusione». Tu sei il direttore del più monumentale dizionario della lingua italiana, quello in 23 volumi iniziato nel 1961 da Salvatore Battaglia ed edito dalla Utet. Eppure la tua immagine pubblica non è quella di un filologo compassato. A detta dei critici, le tue poesie sono percorse da inquietudini esistenziali, sospese fra allegoria e ironia. Chissà se ti riconosci in questo ritratto. «Sì, mi ci riconosco. L' ironia che mi attribuiscono può dipendere dal fatto che tutto ciò che viviamo e sentiamo è precario. L' importante è parlarne senza tristezza. Anzi, con allegria». - NELLO AJELLO



Ha mille ragioni il professor Barberi Squarotti, ci offre spicchi della sapienza, con la libertà di chi ormai può dire quello che pensa e sente, senza il timore di rendersi invisi ai mastini ringhiosi che presidiano la vita pubblica nei settori della formazione e della cultura.

Straordinario il primo richiamo: occorre tornare a studiare la letteratura italiana che è stata fondamento della letteratura europa, ovvero la letteratura che dallo Stil Novo, Dante, Petrarca, Boccaccio, il Rinascimento arriva al Barocco. Dopo quelle stagioni la nostra letteratura diventa marginale, periferica, emula spennata di Francia, Germania, Inghilterra e America per tacer del resto. Eppure oggi nella scuola si dà rilevanza solo a quanto è più modesto nella vertigine da precipizio che deve condurci al Novecento, come se si dovessero omaggiare chissà quali vette del Parnaso. Si mortificano Ariosto e Tasso perché si possano leggere Vittorini e Calvino.Addirittura si è deciso di anticipare al secondo anno la letteratura dalle origini allo stil novo sempre per il medesimo scopo: occorre leggere la letteratura novecentesca, esemplari modelli di dipendenza francese e americana.

Sul secondo richiamo, ovvero sul perché sia così peggiorata la scuola (ed era una buona scuola in origine) mi pare che non si debba aggiungere nulla. Tutto quello che osserva è dolorosamente vero. A partire dal punto centrale: non sono i ragazzi ad essere cambiati, siamo noi che non li abbiamo formati più come si sarebbe dovuto e potuto. Una consapevolezza che ho maturato da tempo; sono contento di essere confortato da un parere tanto illustre.

Bella la stroncatura sulla poesia del cuore, traboccante dagli scaffali letterari.

Una perla è la riflessione sul significato della letteratura per Manzoni.

Un'intervista da meditare lungamente, una lettura indispensabile per chi insegni letteratura italiana


venerdì 21 ottobre 2011

Il tempo nuovo dell'impegno dei cattolici per il bene comune

Benedetto XVI, parlando domenica 9 ottobre alla folla calabrese ospitata in una vasta area industriale dismessa di Lamezia Terme, ha auspicato che scaturisca una nuova generazione di uomini e di donne capaci di promuovere non tanto interessi di parte ma il bene comune.

Nelle parole del Papa possiamo trovare i nodi di quella questione cattolica che sembra agitare questi momenti convulsi della fine della cosiddetta seconda Repubblica.

Marginali, quando non avversati e combattuti, nel processo risorgimentale e negli anni dei governi liberali postunitari, i cattolici sono stati tra i protagonisti principali della scena politica italiana nel Novecento, in particolare con l'avvento della repubblica. L'esperienza storica della Democrazia Cristiana ha guidato lo sviluppo del Paese in un progresso sociale ed economico senza precedenti, un merito ora riconosciuto anche dai detrattori più implacabili.

Quando quel partito politico esaurì la sua funzione, sia per il crollo del muro di Berlino che fece venir meno il bisogno di una diga anticomunista, sia per l'esplodere di tangentopoli che rivelò come il malaffare avesse sostituito la testimonianza sui valori nei cuori di molti dirigenti politici, parve essere cessata la stessa stagione dell'impegno unitario dei cattolici in politica.

Malgrado il generoso e incompreso tentativo di Mino Martinazzoli di rifondare l'impegno dei cattolici democratici, la diaspora fu inarrestabile: nei primi anni Novanta sembrava che il buono e il bello risiedessero sono nell'alternanza di governo tra forze politiche contrapposte. In questo modo i cattolici rinunciarono ad animare un partito laico che mirasse al bene comune senza calcoli di parte, per dividersi tra le trincee contrapposte, combattendo per interessi sempre più ristretti e particolari.

A venti anni di distanza appare sempre più evidente l'esito fallimentare di questa scelta. A destra si riproponeva un'artificiosa barriera anticomunista, basata non più sui valori e sulla capacità di offrire al Paese un avvenire di benessere, ma sull'aritmetica bottegaia in grado di sommare liberalismo arruffone, secessionismo da parata e nostalgie affette da camaleontismo tattico e contraddittorio. A sinistra l'abbraccio via via più stretto con i metamorfici discendenti del comunismo generava una palude di veti contrapposti tra posizioni massimaliste e riformiste, senza riuscire a dare vita a una proposta di governo forte e autorevole del Paese, se non nella prima stagione di Romano Prodi, che però a giudizio di Martinazzoli commise l'errore di porsi come l'abbattitore dello steccato tra guelfi e ghibellini, dimenticando che questo era già riuscito bene a Sturzo, De Gasperi e a Moro.

Non che in tutto questo tempo i cattolici non abbiano influito sulla scena pubblica, ma soprattutto grazie all'episcopato (memorabili Monsignor Camillo Ruini a lungo presidente della CEI e il suo slogan Meglio contestati che ininfluenti) e alla forza dell'associazionismo ecclesiale. Proprio da questo vasto tessuto sociale si intende ripartire oggi per rianimare una politica da cattolici che sia per l'appunto universale negli intenti e nei valori, nella fiducia di poter proporre un progetto utile per il futuro dell'Italia, prima ancora che per questa o per quella barricata, coniugando l'ispirazione evangelica con lo sguardo franco sull'uomo, sulla sua dignità e i suoi bisogni, in modo da promuovere una società giusta e pacifica. Questo il progetto, questa la tensione che si fa sempre più forte nelle comunità ecclesiali per reagire a questi tempi grami. Sembrano mancare solo i capi, ma forse è un bene, se fossero già in campo sarebbero gli stessi che hanno dissipato per incoscienza e opportunismo un'eredità preziosa. Quod Deus avertat.

Brutta vicenda al Massimo

Cade un pezzo di mattone al Circus e si corre ai ripari perché resta senza palcoscenico una scuola di danza. La città non dispone di altri spazi idonei, ovvero sì, c'è il d'Annunzio, ma lì giustamente si svolge il Festival Dannunziano. Ci mancherebbe.

C'è anche il Massimo, facciamo i saggi al Massimo. Ma al Massimo c'è il Flaiano Film Festival. E che si chiama Flaiano il Massimo? Si arrangino, ci cedano le sale, abbiamo diritto alla Grand soirée.

Ci sarebbe il Michetti, il più antico teatro di Pescara salvato da D'Alfonso ... no, non c'entrano le nonne.

E la politica che fa? La politica si commuove, si cava il fazzoletto di tasca, taccia di insensibilità, di disumanità chi intende portare avanti il cartellone di un Festival giunto alla trentottesima edizione, e che rappresenta, col Festival del Jazz, la manifestazione culturale pescarese più celebre nel mondo.

Qui è l'indecenza, è l'inadeguatezza delle istituzioni a rendere brutta una vicenda tutto sommato ordinaria.

Distinguiamo i piani. Benemerita è la Fondazione Pescarabruzzo che negli ultimi anni col suo presidente, Nicola Mattoscio, ha salvato il Circus e il Massimo, che altrimenti avrebbero chiuso i battenti per sempre e la disputa delle sale non sarebbe neppure cominciata, visto che non ci sarebbero state per nessuno.

E gli enti locali? Da qualche anno non creano nuovi spazi e non aiutano a gestire quelli che ci sono. Anzi, non appena si vede una crepa ci inzuppano il pane. Per quale motivo? Il solito. Ricerca di consenso. Centinaia di ballerine rimaste senza soirée sono centinaia di famiglie, centinaia di elettori. Possiamo mostrarci indifferenti? Non possiamo. E allora va bene attaccare chi, malgrado tutto, porta avanti un impegno meritorio come fa Edoardo Tiboni con la squadra dei suoi collaboratori.

Una pagina davvero brutta. Perché la cultura in una città vuol dire soprattutto condivisione di idee, di valori, di riferimenti; il che significa anche darsi delle priorità, riconoscere quanto prevale sull'altro, non perché lo annulli, ma perché ha maggiore rilievo e prestigio.

Un festival internazionale del cinema non può farsi più in là perché una scuola cittadina di danza si è ritrovata senza la sua sala per il saggio di fine anno. Che lo pretendano le bambine si capisce, le famiglie pure, che gli vadano dietro gli assessori offende: non Tiboni, Pescara.


2
luglio
2011

http://www.quotidianodabruzzo.it/ricerca/spaziorandom/7774/brutta-vicenda-al-massimo.html