martedì 1 novembre 2011

Il senso vero dell'incontro di Todi. Il nuovo impegno dei cattolici italiani


Berlusconi sì, Berlusconi no, nuovo partito cattolico sì, oppure meglio di no, a leggere i resoconti giornalistici del seminario “La Buona Politica per il Bene Comune”. I cattolici protagonisti della politica italiana svoltosi a Todi lo scorso 17 ottobre per iniziativa del Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel Mondo del Lavoro, si trova la conferma che lo sport nazionale è la lettura dell'ombelico, ovvero l'incapacità di andare oltre la polemica del momento. Ai commentatori che in gran numero hanno assediato la quiete del convento francescano di Montesanto interessava capire se l'iniziativa fosse finalizzata a dare il benservito a Berlusconi e a mettere in campo una cosa bianca, magari in grado di puntellare un claudicante centrosinistra (malgrado tutto) o di sostituire il Pdl nella guida dei moderati.
Considerato da questo angusto orizzonte d'attesa, l'esito dell'incontro potrebbe essere rubricato come una mezza delusione; solo la conferenza stampa finale ha concesso qualcosa ai desideri dei titolisti con le parole di Raffaele Bonanni, segretario generale della CISL, che ha richiamato l'esigenza di un governo più forte dell'attuale. L'aspetto più grottesco di questa smania politico-mediatica, comunque, è stato raggiunto dal Presidente Berlusconi che martedì 18 ha dichiarato in un comunicato ufficiale che il convegno non si era svolto per dare una spallata al suo governo.
Ma nessuno era andato a Todi per interpretare un nuovo atto nelle farse da teatrino dei pupi che occupano lo spazio pubblico italiano. Al contrario i partecipanti al convegno, esponenti delle principali organizzazioni cattoliche all'opera nel tessuto sociale (una galassia che raduna diversi milioni di iscritti), erano ben decisi a risultare dissonanti rispetto ai motivetti tanto in voga.
Dissonanti per prima cosa perché ben saldati nel tempo e nelle sue dimensioni, e quindi liberi dall'appiattimento sull'ora presente. Né può essere altrimenti per i rappresentanti di un mondo, quello del cattolicesimo sociale, che ha espresso la migliore classe dirigente dell'Italia repubblicana, di cui ha accompagnato con successo la crescita economica.
La novità di Todi, dunque, consiste nella scelta di tornare a riunirsi nella consapevolezza che la crisi del Paese non consente più di restare a guardare e di cedere deleghe a chi palesemente non è più in grado di promuovere il bene comune.
Proprio questo fine è il discrimine tra il modo di condurre la vicenda politica in auge e il modo nuovo su cui i cattolici intendono compiere un percorso unitario al servizio della società. Non è più tempo di battaglie per sostenere un interesse o una parte politica a scapito dell'altra e dell'intera nazione.
L'uomo politico deve operare per il benessere dei cittadini e non per il successo personale, perché a questo lo vincola la dignità dell'uomo che è il fondamento e il fine della società. Non un valore trattabile, ma un bene indisponibile che trova la sua origine nell'opera creatrice di Dio.
Per questa ragione il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della CEI, nell'aprire i lavori del seminario ha detto che non riconoscere la dimensione pubblica della religione significa anche creare una società incapace di … attuare il bene comune, scopo della società giusta. Il bene comune - ha detto infatti il cardinale Bagnasco - comporta tutte le dimensioni costitutive dell'uomo e quindi deve riconoscere anche la sua apertura a Dio, la sua dimensione religiosa.
Per questa ragione il Cardinale ha richiamato l'attenzione su questioni cruciali che riguardano le sorgenti stesse dell'uomo: l'inizio e la fine della vita umana, il suo grembo naturale che è l'uomo e la donna nel matrimonio, la libertà religiosa ed educativa che è condizione indispensabile per porsi davanti al tempo e al destino … proprio perché sono sorgenti dell'uomo, questi principi sono non negoziabili".
L'impegno pubblico dei cattolici, comunque, non intende in alcun modo proporsi in modo confessionale, poiché lo stesso Papa, parlando di recente al Parlamento tedesco, ha ricordato che il cristianesimo non ha mai voluto fondare il diritto sulla rivelazione, ma sulle fonti comuni della ragione e della natura.
L'impegno assunto dall'associazionismo cattolico a Todi riguarda, pertanto, prima ancora che la fondazione di un soggetto partitico, la volontà di rinnovare la stessa politica italiana. Il contrasto al soggettivismo etico, la difesa dei valori umani, la promozione della coesione sociale e la lotta alle diseguaglianze economiche sono i campi nei quali si svolgerà la nuova stagione della partecipazione dei cattolici alla vita politica del Paese. Questa la grande novità che Todi ci consegna a dispetto di tanti (intenzionali) fraintendimenti mediatici.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 32 del 22 ottobre 2011, p. 9

Irresponsabili siamo noi, non i nostri ragazzi


I giovani sono irresponsabili. Puntuale come la pioggia del fine settimana, questa geremiade si rinnova generazione dopo generazione da quando l'uomo ha imparato ad esprimere i suoi pensieri. Condividerla si può considerare un sintomo precoce di vecchiaia. Anche se oggi pare a molti che l'irresponsabilità abbia preso stabilmente piede tra i passi dei nostri ragazzi sneakerscalzati. Io, tuttavia, mi porrei una domanda. Ma noi, i loro formatori, siamo responsabili? Sapremmo rispondere sul valore della formazione che stiamo costruendo con loro? Potremmo con serena coscienza affermare che li stiamo preparando bene all'avvenire che li attende?
Posso parlare per me, per quello che vedo e conosco, ma non sarei ottimista. Temo che la risposta debba essere dubbia, se non francamente negativa.
È un fatto che coloro che saranno protagonisti di un'economia e di una società in cui il vero petrolio sembra essere quello della conoscenza, possono contare su una formazione liceale e universitaria di gran lunga più carente di quella di cui fruivano i loro nonni, che pure avrebbero vissuto in una società in cui non la conoscenza o i progetti, ma i capitali e i ceti di provenienza determinavano gli esiti dei percorsi di vita. Il grande paradosso è che potevano contare su un'istruzione migliore coloro che erano condizionati da una società rigida, mentre oggi, in un universo liquido nel quale le risorse finanziarie sciamano verso le buone idee come api impazzite, è più facile trovare un ragazzo con tanti soldi in tasca che uno che possa fare buona figura in un serio colloquio di lavoro.
Se vogliamo aiutarci ancora con le immagini, io credo che un adolescente che fosse nato nella prima metà del Novecento si trovasse a dover scalare una difficile parte rocciosa nel primo quarto della sua vita, ma conquistata la cima poteva marciare su un lungo e solido altipiano. Non era una passeggiata, ma le gambe temprate dall'ascesa non mancavano mai il passo. Un ragazzo nato nell'imminenza del crollo delle torri gemelle si trova in un percorso concepito come uno scivolo d'acqua. Si procede agilmente anche senza far nulla e l'acqua elimina ogni possibile attrito. Non solo, ad ogni curva c'è lo spazio per gridare uno yuhuuu , perché un piccolo brivido non guasta mai. È un problema? È un guaio che un ragazzo non debba fare la fatica della salita impervia e possa concedersi una piacevole discesa? È opinabile, anche se reazionario come sono sarei portato a pensare di sì. Una cosa è sicura però. Al termine di uno scivolo ad acqua ci vuole una piscina. I nostri ragazzi, invece, al termine del loro yuhueggiare si trovano spinti da un'inesorabile catapulta contro una parete priva di appigli. Ce la fa a salire in cima solo chi si ritrova con polpastrelli da geco.
Fuor di metafora, dopo un percorso formativo connivente e di manica larga, nel quale si considera già meritoria la fatica quotidiana di andare a scuola senza prendere a sediate docenti e compagni di corso, perché i ragazzi di oggi si sa come sono (come se Nostro Signore da un certo punto in poi avesse preso a fare le teste in modo diverso, ignorando che i ragazzi diventano anche quello che noi li sollecitiamo ad essere), di colpo il neodottore, o il neodiplomato, si ritrova di fronte a una società ferocemente matrigna che chiede venticinquenni con esperienza trentennale nella conduzione di un reattore nucleare (cit. Fantozzi), disposti a lavorare 12 ore al giorno gratis, perché ti do un'opportunità, che fa vuoi pure lo stipendio?
Ecco, io da quando lavoro a scuola mi pongo questa domanda. Sono irresponsabili loro, o lo siamo noi che li prepariamo così? Penso che sia vera la seconda risposta e penso che meriteremmo l'inferno come educatori incapaci di preparare alla vita le intelligenze meravigliose che il Signore ci fa incontrare ogni giorno.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 31 dell'8 ottobre 2011, p. 3

Giustizia e umanesimo, la grande lezione di Benedetto XVI al Parlamento tedesco


Papa Benedetto XVI parla al Bundestag il 23 settembre 2011 

Una grande lezione sull'uomo, sulla sua dignità, sul significato della sua esistenza. Potremmo descrivere così la visita di Papa Benedetto XVI in Germania, la sua nazione d'origine, svoltasi dal 22 al 25 settembre. Quattro giorni densi di incontri, di discorsi, di celebrazioni liturgiche,  nei quali il Papa ha voluto confrontarsi con le pluralità all'opera nella società tedesca sul piano confessionale, economico e politico. La cordialità è stato il tratto prevalente della visita apostolica, non quella fredda dell'etichetta, ma quella che nasce dall'apertura del cuore, soprattutto nel confronto con i più lontani, con gli appartenenti a altre confessioni, come i protestanti, o ad altre religioni come gli ebrei e i musulmani, o con i rappresentanti di una società largamente secolarizzata e talvolta sorda al messaggio cristiano.
Questa apertura all'altro da sé costituisce, del resto, la disposizione naturale dell'animo cristiano è chiamato a vivere un'esistenza che è “pro-esistenza, un esserci per l'altro, un impegno umile per il prossimo e per il bene comune”, come ha detto il Papa nell'omelia pronunciata il 25 settembre a Friburgo. Un'umiltà che non è virtuoso formalismo, ma in primo luogo adesione alla realtà, come spiega la stessa radice della parola che viene da humus, ovvero da terra.
Nell'umile apertura all'altro, riconosciuto nella sua diversità, si coglie che “non è l'autorealizzazione, il voler possedere e costruire se stessi, a compiere il vero sviluppo della persona, cosa che oggi viene proposta come modello della vita moderna … È piuttosto l'atteggiamento del dono di sé, la rinuncia a se stessi” che ci orienta verso il prossimo e quindi verso noi stessi.
La responsabilità verso l'altro chiama in causa la dimensione della politica, alla quale il Papa ha dedicato il suo discorso più impegnativo, pronunciato il 23 settembre di fronte al Parlamento tedesco. Benedetto XVI ha ricordato che compito dell'uomo di governo è servire il diritto e combattere l'ingiustizia, ben sapendo che il potere senza diritto porta alla distruzione della giustizia, come è accaduto nei regimi totalitari. Anche nelle democrazie, tuttavia, è necessario sapere cosa sia veramente giusto e idoneo a divenire legge, poiché soprattutto in alcune questioni che riguardano l'uomo non è possibile affidarsi al criterio della maggioranza.
Su questo punto il Papa ha richiamato la tradizione della cultura europea frutto dell'incontro tra la fede nel Dio d'Israele, la ragione filosofica dei Greci e il diritto di Roma. In questo solco si è mosso il Cristianesimo che “non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto - ha rimandato all'armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un'armonia che però presuppone l'essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio”. Negli ultimi anni, però, si è affermata in Occidente una visione positivista che considera natura e ragione solo in termini funzionali, negando il fondamento etico del diritto. Il Papa ha evocato l'immagine di edifici di cemento armato senza finestre, privi di aperture al mondo vasto di Dio. Una visione angusta che mette a rischio la stessa dignità dell'uomo e la sua libertà.
Benedetto XVI ha ricordato che sul fondamento della fede in un Dio creatore si è formata l'idea dei diritti dell'uomo, dell'eguaglianza degli uomini davanti alla legge e della responsabilità delle persone riguardo al loro agire. Per questa ragione occorre salvare questa radice culturale in modo da conservare ancora oggi un cuore docile in grado di distinguere il bene dal male e di fondare un diritto che promuova la giustizia e la pace.
Un discorso formidabile che ogni politico europeo dovrebbe meditare lungamente per ritrovare il senso di un percorso millenario al servizio della promozione della persona.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 30 dell'1 ottobre 2011, p. 9

Il valore dell'ozio


Esiste un rovescio della medaglia nella nostra condizione  di consumatori di quello che non produciamo. L'essere ingranaggi di un meccanismo che non ci abbandona mai, che ci tiene in attività in ogni momento senza consentirci mai di disporre di noi stessi. Le persone sono talmente disabituate a starsene quiete per i fatti loro, che non appena si trovano libere dal lavoro si imbattono in un altro impegno, che vorrebbe essere d'evasione, ma che in realtà non differisce molto da quello professionale per energie, modalità e ritmi richiesti.
Non a caso, quando in Gran Bretagna si decise di obbligare i datori di lavoro a concedere una settimana di ferie stipendiate ai loro dipendenti (correva l'anno 1936), venne fuori un certo Billy Butlin che organizzò a tempo di record colonie estive che offrivano un programma talmente denso di impegni da assorbire ogni momento delle giornate di riposo dei lavoratori. Vacanze estenuanti, varrà il caso di dirlo, ma tali da impedire alle masse avvezze a subire il giogo dell'ufficio o della fabbrica di trovarsi disorientate a dover gestire un tempo che d'un tratto si faceva vertiginosamente vuoto.
Malgrado la crisi economica e il conseguente assottigliarsi delle finanze personali, anche oggi la fabbrica delle vacanze non conosce soste, magari diminuiscono i giorni, si fanno più corti i tragitti, più essenziali i trattamenti, ma resta lo scopo essenziale: evadere da se stessi, dal rischio di trovarsi improvvisamente privi delle occupazioni e dei doveri che fanno le giornate magari tetre, ma libere dalle insidie dell'introspezione.
Forse, approfittando del conto corrente in rosso, evitando la sventura di un nuovo finanziamento per spese di consumo, bisognerebbe trovare il coraggio di trascorrere le ferie dandosi all'ozio, al tempo per sé senza l'incubo dell'orologio, delle file, dei turni, delle scadenze.
Ritornare come quando si era ragazzini a vivere i lunghi pomeriggi estivi animati dall'immaginazione che popolava un mondo più vasto della nostra stessa curiosità.
Alzarsi quando si vuole, mangiare quando si ha fame, frugare tra cassetti colmi di speranze dimenticate, alternare un film a un libro, senza risolversi a preferirne uno in particolare, andare a zonzo per le strade quando s'avvicina la sera e la città s'intride del profumo dei pini e del mare, girare per i borghi vicini quando non vi sono le dannate sagre. Perché bisogna stare attenti, l'ingranaggio è inesorabile, basta fare la fila per il biglietto che serve a fare la fila per prendere la pasta fredda che ci si ritrova nella fabbrica vacanziera sempre in agguato dalle nostre parti. E sì, anche saper oziare richiede la sua brava fatica. Ma qualche volta fa scoprire che possiamo essere grandi amici di noi stessi.

pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 24 del 13 agosto 2011, p.3

Crisi tra ieri e oggi


Refrattari come siamo alla responsabilità, intendiamo come un moloch, come un sinistro babau la parola crisi, che pure nella sua radice greca non significa di per sé sciagura o rovina. Krisis è il momento della distinzione, della scelta, del processo, del giudizio, della soluzione.
Sia che ci si trovi a dover scegliere tra opzioni differenti, sia che si debba vagliare, o far vagliare, quello che si è fatto, krisis è il sentiero che ci porta oltre.
Per chi ha buona coscienza è un percorso agevole; Demostene accusato da Eschine poteva dire agli Ateniesi: «penso che nei miei atti politici ci sia la possibilità di giudicare» (en tois pepoliteumenois ten krisin einai nomizo XVIII 57).
Oggi siamo collettivamente molto meno baldanzosi di fronte al passaggio della crisi. Di fatto è come se venissimo convocati per un esame severo, sapendo di aver sfogliato di malavoglia i libri. Non si dorme.
La crisi, dunque, prima che l'economia devasta la nostra cattiva coscienza.
Sia a livello internazionale che a livello locale non sarebbe stato arduo rendersi conto che il sistema rischiava di essere insostenibile. Nel primo caso che il dato virtuale della finanza soverchiasse di gran lunga l'economia reale era un campanello d'allarme eloquente. Sul piano regionale il discorso è più lungo: una rete infrastrutturale insufficiente e priva di efficaci connessioni intermodali, il modesto dimensionamento delle imprese locali, la non efficace interlocuzione con gli insediamenti industriali esogeni, l'elevato costo dell'energia e della fiscalità, l'assenza di un forte soggetto creditizio abruzzese, la spesa sanitaria da troppo tempo fuori controllo, la debolezza del sistema formativo, la dipendenza di interi pezzi di territorio dalla spesa pubblica (soprattutto nelle aree interne), una classe dirigente orientata soprattutto alla difesa del proprio particulare. Un quadro non lusinghiero che fotografa la tendenza a tirare a campare, non senza una spudorata attitudine a vivere il presente ipotecando il futuro.
Il sintomo più eloquente di questa condizione è l'incapacità di offrire una risposta convincente e credibile alla crisi, un progetto in grado di reagire alle angustie presenti per fondare un nuovo benessere economico e sociale. In realtà anche questo rientra nella cifra della rimozione del significato di krisis, che vuol dire anche esito, conclusione. Per farlo bisognerebbe essere capaci di affrontare di petto il futuro, ma in realtà si tiene la testa volta al passato, in una sorta di rimpianto per i bei tempi che furono. Anni formidabili in cui alla mancanza di entrate si sopperiva attingendo largamente a risorse nazionali (svantaggiando altri territori) e ricorrendo allegramente al debito, anni di economia assistita senza alcune riguardo per modi, qualità e valore del fattore produttivo, purché si garantisse occupazione. Non ridistribuzione della ricchezza prodotta, ma distribuzione di ricchezza anche a costo di sottrarla alle generazioni di là da venire.
Del resto James Hillman osservava nel suo fortunato saggio Kinds of Power che nel XX secolo l'economia ha preso nelle anime il posto che prima aveva la religione. Da questo punto di vista poteva apparire persino giusto godere di un benessere che non si era guadagnato.
Ora non si può più, volenti o nolenti è arrivata krisis e attende da noi una risposta. Se vogliamo superare l'esame ci converrà abbandonare il prendere e risolverci al fare.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 21 del 23 luglio 2011, p. 5

La lezione di Russi


Nel 2004, accomiatandosi dal servizio decennale di Rettore dell'Università di Teramo, Luciano Russi volle porgere ad amici, colleghi, collaboratori ed allievi un omaggio affettuoso con le poesie, le musiche e le canzoni contenute in una piccola pubblicazione intitolata Le arti del congedo. Un segno di consapevolezza che finanche il distacco va compiuto con arte, come un compimento nella bellezza che è anche consolazione.
Nessun conforto di questo genere ci ha accompagnato due anni fa, quando una malattia affrontata a schiena dritta ha posto un termine alla giornata terrena di questo grande uomo.
Luciano Russi è stato una personalità poliedrica spinta da una schietta curiosità sui moventi ideologici e storici alla base dello svolgimento della vita sociale e sorretta da una entusiasmante forza di volontà, felicemente contagiosa, che lo sollecitava a misurarsi sempre con nuovi impegni ed iniziative.
Dopo essere stato a lezione dei più grandi maestri di Storia delle dottrine politiche, da Rodolfo de Mattei ad Anna Maria Battista passando per il magistero di Augusto Del Noce, Russi ha esplorato con libertà e coraggio questa disciplina alla ricerca dei fondamenti del rapporto politico, non solo sul piano delle idee, ma anche su quello delle forme mentali, delle rappresentazioni emotive e culturali, dell'organizzazione istituzionale e dei fenomeni di massa.
Costantemente attento al dato filologico, lo studioso ha scrutato nelle pieghe di autori apparentemente minori che gli è riuscito di far brillare come testimoni della temperie del loro tempo. Tra questi bisogna ricordare soprattutto Carlo Pisacane, il patriota socialista che grazie alla rilettura attenta di Russi è divenuto un riferimento fondamentale per la capacità di fondere la questione nazionale a quella sociale, in un esito sostanzialmente contraddittorio e come tale emblematico dei tanti problemi della costruzione della nuova nazione. Non a caso il volume su Piscane fu seguito a distanza di un paio d'anni dal libro forse più celebre Nascita di una Nazione. Ideologie politiche per l'Italia (1815-1861) un'opera anticipatrice di un tema quanto mai attuale, la fragilità dell'indentità italiana. Una ricerca svolta sulle origini del Risorgimento nazionale, applicando la lezione di Machiavelli del ridurre le cose ai loro principi che è ricorrente nell'opera di Russi. Negli anni si succedono molti altri saggi come quelli su Marsilio da Padova e la sovranità popolare, su Giovanni Botero, su Rousseau e il movimento giacobino, sul pensiero politico di Robespierre, su Tocqueville, sui modelli federalisti nell'Italia moderna, sull'influenza di Dante in Augusto Del Noce.
L'impegno di governo alla guida dell'ateneo teramano ha rivelato le qualità strategiche e relazionali dell'uomo e il suo coraggio nel portare avanti sfide all'apparenza impraticabili per consolidare l'autonomia della nuova università e inserirla a pieno titolo nel panorama accademico nazionale. Una missione condotta con passione, evitando sempre la tentazione del municipalismo, cui contrappose l'impulso dato al Coordinamento regionale delle università abruzzesi, uno strumento prezioso per elevare la qualità del sistema formativo e della ricerca scientifica nella nostra regione.
Sempre sul piano della passione non può restare sotto silenzio quella provata da Russi per lo sport e per il calcio in particolare (ricordiamo tutti la stagione gloriosa del Castel di Sangro, di cui fu presidente e a cui dedicò un saggio Lilliput è salvo) che seppe studiare come fenomeno culturale di massa e come elemento coesivo della vita nella comunità e a cui ha dedicato una tra le riviste più interessanti del panorama nazionale “Lancillotto e Nausica”. Forse non casualmente l'ultimo suo libro è stato L'agonista. Gabriele D'Annunzio e lo sport, nel quale affronta, in una sorta di corpo a corpo, la dimensione del competere, anche sul piano sportivo, nel grande Abruzzese.
L'aspirazione alla grandezza non è mancata a Luciano Russi, dimostrando in questo l'originalità di un figlio d'Abruzzo che non ha intrapreso la via della fuga da queste contrade per realizzare i suoi sogni, cercando ostinatamente piuttosto di realizzare qualcosa di grande anche qui.
Con questa consapevolezza la Fondazione Europa Prossima, con l'aiuto di alcuni allievi del professore, organizza per giovedì 16 giugno alle 17,30, presso la Sala consiliare della Provincia di Pescara,  un ricordo con l'intervento di personalità nazionali come Lorenzo Ornaghi, Rettore dell'Università Cattolica, Francesco De Sanctis, Rettore del Suor Orsola Benincasa, e Paolo Gambescia, già direttore del Messaggero. Emblematico il titolo: Luciano Russi intellettuale in Abruzzo. Riflessione politica e discorso pubblico per un paese difficile.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 15 dell'11 giugno 2011, p. 27

«Lo farò volentieri». Vivere da frati nella tendopoli di Piazza d'Armi, fratelli tra i fratelli.

fra Orazio Renzetti O.F.M. Capp.

Una cappella in una tenda, su un altarino una povera immagine lignea della Sacra Famiglia, a fianco un mattone scheggiato e incrostato di cemento, quello che resta di una casa che non c'è più, sopra c'è scritto “Va' e ripara la mia casa”.
Possiamo partire da questa immagine per raccontare l'esperienza vissuta dai Frati Minori Cappuccini nella grande tendopoli di Piazza d'Armi nei giorni più duri del dopo terremoto dell'Aquila.
In quella città i frati sono di casa da sempre, nella notte del 6 aprile 2009 il terremoto distrusse il loro convento di Santa Chiara, le rovine fanno impressione ancora oggi.
Il giorno stesso due frati vanno a Spoleto a chiedere aiuto ai confratelli di quella comunità, nella quale si trovano anche i postnovizi che vivono la loro formazione religiosa.
Non si perde tempo, S. Francesco sarebbe corso subito in soccorso dei fratelli terremotati. Questo pensano i cappuccini che si rivolgono all'Arcivescovo dell'Aquila Mons. Molinari che affida loro il campo di Piazza d'Armi. Il 7 aprile viene individuata un'area dove erigere una cappellina e il 9 sette frati sono lì per iniziare il loro servizio tra le persone che hanno perso tutto tra le macerie. Questa piccola comunità francescana è guidata da fra Orazio Renzetti, pescarese di origine, un passato con gli scarpini da arbitro di calcio ai piedi, ora sempre calzati da sandali.


Fra Orazio, di fronte a una sciagura così grave, che si è rinnovata con tanta violenza distruttiva ora in Giappone, non è naturale domandarsi dove sia Dio?
Ti rispondo con un ricordo. Il 9 aprile era Giovedì Santo. Aperta la cappellina in una tenda di Piazza d'Armi, me ne sono andato a Coppito per pregare sulle bare delle vittime dei crolli. Lungo la strada mi ha colpito un'immagine. Presso una rotatoria c'era una croce, di quelle messe a ricordo di una missione religiosa. Sotto la croce era finito, chissà come, un cartello con scritto “Affittasi”. Certamente l'annuncio non riguardava quella croce, di certo si trattava di qualche locale che magari non c'era più. In quel momento ho pensato:  «La croce di Cristo appartiene solo a Lui, non la vende a nessuno». Capii che a noi viene data solo per qualche tempo, come in affitto. Alcune volte ci cade addosso pesantemente come è successo a L'Aquila, ma Gesù ne resta il padrone e ci aiuta a portarla. Con i miei confratelli abbiamo compreso che il compito che ci attendeva a Piazza d'Armi era farci carico di questa missione di Gesù: aiutare a far risorgere dalle macerie spirituali coloro che erano caduti sotto la croce. Non abbiamo fatto altro che metterci a disposizione di questo progetto di Dio. Per questo rispondo alla tua domanda: Dio è in tutto questo. 


Come avete svolto questa missione nella tendopoli?
Alla tendopoli c'era bisogno di tutto. Soprattutto si sentiva il bisogno di ricevere conforto, rassicurazione, speranza. Noi ci siamo messi in ascolto delle anime, abbiamo portato il messaggio di Cristo, abbiamo prestato il nostro aiuto in quello che ci veniva richiesto, anche nelle cose più semplici, come il portare medicinali, viveri e  giocattoli nei paesi colpiti dal sisma. Abbiamo fatto l'esperienza del servizio nel campo, sperimentando una profonda comunione con tutti gli altri volontari di tante associazioni religiose e caritative presenti a L'Aquila; tra queste voglio ricordare l'Unitalsi. Abbiamo toccato con mano nei fratelli la forza del sollievo cristiano. È stata un'esperienza indimenticabile, credo soprattutto per i giovani frati in formazione che hanno vissuto con noi e con i confratelli di Santa Chiara alloggiati nei vagoni ferroviari un momento forte nella realizzazione del nostro carisma francescano.


Che ha significato vivere da francescani questa esperienza?
Abbiamo avuto modo di meditare l'episodio di San Francesco di fronte al Crocifisso di San Damiano. Alla preghiera fervente del Santo, «Signore cosa vuoi che io faccia?», il Signore rispose: «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va' dunque e restauramela». Le fonti ci raccontano che Francesco rispose:
«Lo farò volentieri, Signore» (Fonti Francescane 1411).
Noi a L'Aquila siamo riusciti a vivere davvero come frati, fratelli tra fratelli, accomunati tutti da un unico amore: l'altro, perché abbiamo condiviso molto del tutto: preghiera al mattino, servizio durante il giorno, santa Messa e momenti serali di preghiera.
La sintesi finale del nostro stare insieme è venuta fuori dalla bocca di tutti, sia di chi è andato per servire, sia di chi è stato servito: grazie. In questo modo le parole di Francesco si  sono profondamente realizzate in noi: «Lo farò volentieri, Signore». Pace e bene a tutti.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 6 del 2 aprile 2011, pagina  8

L'onda lunga del 6 aprile


Le dimissioni di Massimo Cialente, sindaco dell'Aquila, conferiscono lo stigma della profezia al J'Accuse che Rita Centofanti ha pubblicato il 5 marzo su La Domenica d'Abruzzo.
Miopia, assenza di strategia, particolarismo, beghismo, inadeguatezza alla straordinarietà del presente in una città minata da un'accidiosa decadenza e tramortita dalla gran botta del terremoto sono i mali della classe dirigente cittadina (per non dire regionale e nazionale) che la Centofanti ha messo in luce e a cui Massimo Cialente ha saputo dire basta.
Chapeau. Nella patria del tirare a campare nessuno rinuncia a un incarico, semmai se ne fa promettere un altro. Non rinuncia nemmeno chi viene buttato di sella dall'elettorato, che pure dovrebbe essere il giudice ultimo in questa materia: un istante dopo l'amministratore bocciato rimedia un altro scranno, sempre in attesa del successivo. Figuriamoci.
La generazione che fece il suo début occupando scuole e università in vista della rivoluzione (obiettivo rinviato, distruggere l'istruzione parve sufficiente), seguita il combat per occupare il potere. Come fine della lotta, mica come mezzo.
Sembra che anche a sinistra sia stata dimenticata la celebre lezione che Togliatti diede a Pajetta, quando questi gli telefonò festante per annunciare la presa della Prefettura di Milano nel 1947. «Bravi, avete occupato la prefettura e ora che ci fate?», fu la risposta.
Cambiare il mondo era l'obiettivo indicato da Marx ai suoi, ora ci si contenta di descriverlo, o meglio di narrarlo, come oggi usa dire.
Chi voglia governare L'Aquila ha il dovere di chiarire quale potrebbe o dovrebbe essere il futuro di questa città, che non può dipendere dalle partite di spesa del Ministero del Tesoro o da una cultura sovvenzionata dalle sole casse pubbliche.
Su questo fronte la politica non ha dato mai risposte, salvo lo spalancare la bocca come un forno solo quando si paventava il trasferimento di un ufficio o di uno sportello da una città a un'altra.
Eppure non sono mancati i suggerimenti esterni. Ad esempio Enrico Letta, vice segretario del Partito Democratico, propose nel 2009 di dare futuro a L'Aquila mettendola al servizio del Paese. In che modo? Rendendola sede di due poli d'eccellenza nazionali: uno delle telecomunicazioni, l'altro dell'industria farmaceutica, prevedendo norme in grado di incentivare le imprese ad investire sul territorio aquilano. In questo modo si sarebbero rafforzate le industrie storicamente esistenti nella città e se ne sarebbero attratte di nuove, oltre a dare una risposta nazionale al problema dei tagli alla ricerca, in particolare nel campo farmaceutico.
Una proposta caduta nel dimenticatoio. Non solo per opera di chi al governo nazionale avrebbe potuto raccoglierla, ma anche di chi sul territorio era impegnato altrimenti: a consolidare la sua forza elettorale, a distribuire favori a cittadini giustamente allo stremo, a creare grane a un sindaco che alla fine ha saputo far scendere il sipario. Nella speranza che non torni a sollevarsi.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 3 del 12 marzo 2011