mercoledì 24 dicembre 2008

Il Natale della Miscellanea



Natale è un nuovo inizio. Andiamo

domenica 2 novembre 2008

Maestri di impero. Luciano Canfora a Pescara

La Miscellanea dà conto anche degli articoli che il suo curatore va, molto episodicamente (è accidioso), pubblicando su testate ospitali.

Ecco quello che ci pubblica oggi (2 Novembre 2008) il "il Messaggero" nel dorso Abruzzo a pagina 39.


Il segreto dell’impero? L’integrazione dei popoli
Dalla Persia ad Atene, a Roma: la conversazione di Luciano Canfora all’Accademia d’Abruzzo


di MARCO PRESUTTI*

Duro destino quello dell'impero.
Vagheggiato come sogno agli inizi del Novecento, reciprocamente rimproverato come insulto dai due blocchi della guerra fredda, praticamente svanito dal discorso pubblico negli anni recenti dell'apparente "pax americana".
Un quadro paradossale che invita a riflettere sulle tipologie di impero.
Questo ha fatto venerdì 24 ottobre nella sala consiliare del Comune di Pescara Luciano Canfora, ordinario di Filologia Classica all'Università di Bari, storico e saggista autorevole non meno che rivoluzionario.
Invitato dalla meritoria Accademia d'Abruzzo, Canfora ha ragionato sulle forme greche e romane dell'impero, nelle quali possiamo trovare indicazioni preziose anche per la riflessione politica contemporanea.
L'impero nasce come realtà ostile, palesata nell'incombente minaccia del persiano pronto a dilagare nello spazio greco con le due spedizioni punitive di Dario e di Serse. Dall'imprevedibile disfatta persiana sul mare di fronte a Salamina nasce una nuova realtà imperiale, quella ateniese. Un impero di nuova concezione, che formalmente si presenta come un'alleanza antipersiana, ma che per circa 70 anni nel quinto secolo avanti Cristo è lo strumento della politica di potenza della città democratica. La sua flotta militare, che domina il mare e che spezza sul nascere ogni ribellione delle città tributarie, finanzia la stessa democrazia ateniese, i bisogni crescenti dei suoi cittadini, l'ambizioso programma architettonico dell'acropoli, con una morsa sempre più dura nei confronti degli alleati tartassati e con una spinta sempre maggiore all'aggressione esterna.
Un altro modello di egemonia è quello di Sparta, un dominio cui si sottomettono quasi tutte le città del Peloponneso per via del prestigio militare e politico di questa polis, considerata paradigma di buon governo. Il mito di Sparta ha esercitato una forte influenza nei secoli. Canfora ha ricordato in proposito l'ammirazione perversa di Hitler che a tavola avrebbe esclamato: «Sparta era lo stato razziale perfetto». Lo studioso ha sottolineato che proprio questa chiusura delle città greche nei confronti dei non cittadini è stata la falla che le ha condannate nel lungo periodo.
Roma è tutta un'altra storia. La spinta imperiale si sviluppa in questa civiltà prima ancora che si possa formalizzare un concetto di impero. La forza militare si accompagna all'integrazione delle classi dominanti delle province conquistate. Per i Romani era chiaro quello che più tardi disse Bismarck "Con le baionette si può fare tutto, tranne che sedercisi sopra". La politica di inclusione ha fatto sì che l'impero romano, che per Canfora è più corretto definire come una repubblica imperiale, sia durato per tanti secoli dominando l'intero Mediterraneo. Anzi, l'impero romano si può considerare almeno bimillenario, visto che l'ultimo imperatore dei romani muore con la conquista di Costantinopoli del 1453 e che il sultano dei Turchi, Maometto II, si fa acclamare nuovo imperatore.
Una storia di lunghissima durata resa possibile dall'estensione della cittadinanza agli stranieri, che da barbari si fanno romani. Ecco chi sono i maestri d'impero, ha concluso Canfora.
Maestri da cui non è sciocco provare ad imparare, xenofobi di tutti i colori permettendo.

* Presidente Fondazione Europa prossima

sabato 1 novembre 2008

Da una goccia di troppo germogliano democratici disobbedienti

In una tarda mattinata sabatina, greve di nero umore d'amarezza, per l'insipienza con cui la classe non dirigente che comanda sul nostro partito ha messo mano alla questione delle candidature con cui avremmo dovuto esprimere la ripartenza del PD dopo la tragedia del 14 luglio, e anche per la consapevolezza di candidare una lista di familiari e di famigli cui non affideremmo la nostra rappresentanza in una bocciofila, figuriamoci presso il Consiglio Regionale dell'Abruzzo, ecco che in siffatto spleen giunge come goccia fatale un sms dal numero +923028267026 (ore 11.16 del 1 novembre 2008)

"su proposta del PD naz e reg ho accettato di essere capolista (prov.PE). Ho bisogno del tuo aiuto per continuare a cambiare e moralizzare l'Abruzzo. EnrPaolini"

La misura è colma. Questo personaggio, privo forse anche del suo voto personale, che da anni occupa posizioni di vertice politico in ragione di amicizie e di complicità, che ha dato pessima prova di sé nella vice presidenza della Regione, che ha tenuto all'oscuro noi tutti delle anomalie e dei reati che egli sostiene di aver ravvisato nella conduzione della sanità regionale, esponendoci così al 14 luglio come a una bomba che esploda in tempo di pace, questo personaggio annuncia al mondo di aver accettato di essere capolista.
Capolista.
Non dice di essersi candidato, così come hanno fatto tutti gli altri. No, egli ci significa che graziosamente s'è degnato di aderire alle sollecitazioni che gli provenivano dai vertici nazionali e regionali del partito (e chi saranno simili imbecilli?) acché egli si degnasse di guidare la lista del nostro partito, che forse altrimenti sarebbe stata orba di tanto ingegno, il quale ci chiede niente meno di aiutarlo a cambiare e a moralizzare l'Abruzzo.
Io dico basta.
L'Abruzzo si cambia e si moralizza se gli abruzzesi, a partire dai loro vertici, vivono del loro lavoro e spendono le loro professionalità per lo sviluppo di tutti. Questa considerazione tanto ovvia si esprime solo per una ragione. Per evidenziare che Enrico Paolini è il contrario di quello di cui abbiamo bisogno. E lo stesso temo si possa dire degli altri 7 che egli guiderà nella competizione elettorale.
Di fronte a tanto sfacelo, di fronte a tanta miseria io penso che sia possibile ripetere le parole tanto abusate di Don Milani: l'obbedienza non è più una virtù.

Ed oggi come mai io mi sento un democratico disobbediente

martedì 21 ottobre 2008

Salva l'Italia? E come può farlo un PD in mano ai fiaccolari?

Il più grande partito riformista della storia d'Italia sceglie come sua prima iniziativa nazionale una manifestazione di piazza per protestare contro il governo che contribuirebbe a determinare il declino politico, economico e morale del Paese. Basta leggere la motivazione di questa proposta per cogliere un'impostazione politica e culturale che rinnega alla radice il profilo riformista che dovrebbe caratterizzare il Partito Democratico. Un tradimento che ha un responsabile evidente: la leadership nazionale in difficoltà dopo la sconfitta elettorale di primavera. Dopo aver fatto deragliare il Governo Prodi nella speranza di incassare nelle urne un successo facile sulle ali della novità, dopo una balbettante e farsesca fase post elezioni di amoreggiamenti con Berlusconi, si torna alla classica strategia dell'autunno caldo per consolidare la forza della dirigenza nel fronte interno al partito. Se questa linea poteva funzionare nel Partito Comunista Italiano, non va bene per il Partito Democratico. Abbiamo bisogno di una classe dirigente in grado di incalzare e di mettere all'angolo il Governo Berlusconi avanzando idee e proposte di riforma più intelligenti e coraggiose. Salviamo l'Italia? Certamente, ma solo se salviamo il PD dalla dittatura molle dei "fiaccolari".

domenica 12 ottobre 2008

chi di invettiva ferisce trova un lothar che lo finisce

questo ho pensato oggi quando ho aperto il centro e ho letto la puntuale risposta del club "siamo gli amici di stefania pezzopane".
Sul Centro di oggi a pagina 13 si poteva leggere quanto segue

Pezzopane: «Resto al mio posto nel Pd»
L’AQUILA. «Oggi sarò a Sulmona a presiedere regolarmente l’assemblea regionale del Partito democratico». Stefania Pezzopane replica così a Marco Presutti, dirigente del Pd che ieri aveva chiesto le dimissioni della Pezzopane dalla presidenza regionale del Pd. Secondo Presutti la Pezzopane aveva sbagliato prima a criticare la realizzazione della nuova sede del consiglio regionale e poi a disertare l’inaugurazione che si è svolta ieri a Pescara. Dunque la Pezzopane ha considerato «irricevibile» l’invito di Presutti a lasciare la presidenza del Pd e ha chiarito: «Conosco bene la differenza fra ruolo politico e ruolo istituzionale» ha detto. Ma dall’Aquila non si placa la polemica contro la sede del consiglio regionale inaugurata ieri a Pescara, doppione di palazzo dell’Emiciclo nel capoluogo di Regione. Il capogrupo del Pd in consiglio comunale Pietro Di Stefano attacca Presutti per quanto ha detto sulla Pezzopane. «E’ assurda e incredibile l’invettiva di dimissioni dalla presidenza regionale del Pd lanciate da Presutti nei confronti della presidente della Provincia Stefania Pezzopane per la sua posizione, condivisa, sul doppione della sede della presidenza del Consiglio Regionale, aperta a Pescara. Vorrei capire il motivo per il quale si è inteso ficcare il partito dentro una dialettica tra istituzioni; non mi è sembrata un’idea geniale tanto più che in sede di partito non si è mai discusso dell’opportunità o meno di tale scelta».


Ora si potrebbero replicare tante cose a partire da quello che, ipotizziamo acidamente anche nel tono di voce, ha detto la presidente Pezzopane "conosco bene la differenza...". Ma cara signora, mica le avevo contestato ignoranza, avevo contestato il suo comportamento. Conoscere, infatti, non equivale a bene operare, e non è che la si scopra oggi questa cosa.

Più intrigante e più diretta all'estensore della miscellanea è la replica di Pietro Di Stefano (...il destino beffardo dei nomi, proprio un Pietro di Stefania...), che oltre a guidare il gruppo del PD nel consiglio comunale della città che mi ha dato i natali, si erge a paladino di Madonna Stefania, novello cavaliere senza macchia e senza paura contro gli ignobili assalti ai danni dell'amata presidente.

Tanta la foga proruppe dalle labbra del cavaliero da schiacciare lo stesso senso delle parole poverelle uscite tra lo strepito della sua bocca. Dalle colonne del Centro s'affaccia così basita al mondo un'"invettiva di dimissioni", alla cui lettura tutti fanno oh, soprattutto quando si moltiplica trovandosi ad essere "lanciate", forse per sottolineare ed enfatizzare la virulenza sacrilega dell'assalto (e come ci cade a fagiuolo il verbo lanciare per alludere all'infida saetta) contro l'amata presidente.
Presidente che si trova, nelle parole del fido Pietro (immune da canti di galli), in una scomoda, benché condivisa, posizione: quella su un doppione di sedi. O fido cavaliere, e non ci sarà il rischio che stia in bilico Monna Stefania? Soccurre, Pietro, adiuta.
Da ultimo il cavaliere interroga con sdegno: perchè si è voluto ficcare dentro il partito? E che ne sappiamo noi? Ma soprattutto chi ha ficcato dentro? E che vorrà mai dire ficcare? I siciliani penseranno a un'oscenità, noi altri a una certa ineleganza della frase.
Ma via, non di raffinatezze di stile s'ha da intendere un paladino, ma di vigore e di eroicità.
E nelle frasi del nostro Pietro vi sono l'uno e l'altra, se ve le pone attonito il lettore che se le trova di fronte nel giornale della domenica. Vigore di intelligenza nel cercare i significati, eroicità nel portare avanti la lettura.

E sì caro fratello. Questo succede, quando si invettiva Monna, un Lothar implacabile ti finisce.

sabato 11 ottobre 2008

e il Centro titola: nel PD Presutti contro Pezzopane

dal Centro di sabato 11 ottobre, pagina 12

L’Aquila e Pescara divise come 37 anni fa
Cialente: il doppione è uno spreco immorale. Nel Pd Presutti contro Pezzopane

di Giustino Parisse

L’AQUILA.Oggi L’Aquila non ci sarà. Nessun rappresentante del capoluogo di Regione parteciperà all’inaugurazione della sede del consiglio regionale a Pescara. «E’ una cosa immorale» ha detto il sindaco dell’Aquila, Cialente. Dopo 37 anni la Regione torna a dividere L’Aquila e Pescara.
La posizione del sindaco arriva 24 ore dopo quella della presidente della Provincia Stefania Pezzopane che aveva parlato di «spreco di denaro e inutile doppione». E proprio questa dichiarazione spacca anche il Partito democratico. Marco Presutti dirigente regionale del Pd, chiede le dimissioni della collega di partito dalla presidenza del Pd regionale.
«Questa regione ha bisogno di unità e chi ha funzioni regionali deve spendersi per garantirle, senza evocare i fantasmi dei campanilismi», sottolinea Presutti, «per questo, io da nativo dell’Aquila e figlio di un aquilano, vivo a Pescara per ragioni di lavoro mi sento offeso e umiliato dalla polemica della Pezzopane. Io ritengo che è una sede legittima perchè lo statuto prevede che il consiglio si riunisca all’Aquila e Pescara. Finora, inoltre, si spendevano soldi dei fitti, semmai così si evita uno spreco. La polemica è quindi fuori luogo. A questo punto o Stefania Pezzopane riconosce di aver sbagliato, oppure se persiste in questo atteggiamento di irresponsabilità istituzionale, è evidente che non può continuare a svolgere la funzione di presidente del Pd abruzzese. Se non si scuserà o presenterà le dimissioni non parteciperò più ai lavori dell’assembla regionale del Pd».
La Pezzopane replica indirettamente: «Dopo il mio no alla partecipazione all’inaugurazione» ha detto «ho ricevuto decine di sms di persone che si sono dette d’accordo con me. Quella nuova sede è uno schiaffo ai tanti che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese e anche al ruolo istituzionale dell’Aquila capoluogo». La nuova sede del consiglio regionale di Pescara è costata circa 10 milioni di euro e per far funzionare gli uffici (soprattutto quelli dei gruppi consiliari) avrà bisogno di personale aggiuntivo a quello che già esiste. Una montagna di soldi per dotare la Regione Abruzzo, caso forse unico in Italia, di ben tre aule consiliari: quella “vecchia” all’Aquila (che ancora è in funzione), quella nuova sempre all’Aquila (pronta da tempo ma ancora inutilizzata) e quella nuova a Pescara che, tra l’altro, è ancora tutta da fare visto che attualmente nel palazzo acquistato dalla Regione c’è solo una sala congressi non attrezzata per eventuali consigli regionali. Insomma un pasticcio che butta benzina sul fuoco sul contestatissimo compromesso che nel 1971 - fra proteste, barricate e cariche dei celerini - di fatto divise gli uffici della Regione un po’ all’Aquila e un po’ a Pescara. Il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente è durissimo: «Nel momento in cui si tagliano fondi a istituzioni culturali - che sono il vanto dell’Aquila - e persino alla mensa dei poveri, si dà vita a una vera e propria fiera dello spreco e dell’inutile. Non me la sento di partecipare alla triste danza che si consumerà intorno al bisonte che muore».

Devo riconoscere che a parte qualche solecismo il giornale ha riportato correttamente il mio pensiero, senza indulgere ai sensazionalismi. è saltata del tutto, invece, penso per ragioni di spazio, il riferimento alla lista che ho coordinato sul piano regionale alle primarie del partito, la lista Letta. Con quella lista, infatti, noi abbiamo perseguito una posizione di unione tra le componenti del partito e tra i territori della regione. Quella politica ci ha premiato e ci ha attribuito il 10 % alla primarie del 14 ottobre del 2007. Per questa ragione non ho potuto tacere di fronte ai risorgenti campanilismi pezzopaniani.

Il giornale ha reso più tirata l'uscita sulla prima pagina nella quale oggi si legge

Oggi nel capoluogo adriatico l’apertura di una nuova sede La Regione divide L’Aquila e Pescara Cialente e Pezzopane disertano la cerimonia, lite anche nel Pd L’AQUILA.Un salto all’indietro nel tempo di 37 anni. E’ questo l’effetto della inaugurazione, prevista oggi nel capoluogo adriatico, della sede pescarese del consiglio regionale. Come nel 1971, quando di decise di “spartire” gli assessorati, L’Aquila (capoluogo regionale) e Pescara tornano a dividersi. La cerimonia di stamani sarà disertata dal sindaco dell’Aquila Cialente e dalla presidente della Provincia, Pezzopane. Ed è scontro anche nel Pd. Presutti chiede le dimissioni della Pezzopane che ieri aveva detto: «La doppia sede è inutile e costosa».

Condivido pienamente il fatto che questa inutile uscita polemica della presidente Pezzopane ci faccia compiere un salto indietro di 37 anni.
Cara Pezzopane, guarda che io ne ho solo 34!!!

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ore 16,00
ho appena inviato per mail una lettera all'assemblea regionale del PD attualmente in corso, nella quale spiego perché non parteciperò all'incontro. Spero che venga letta. A beneficio delle moltitudini di lettori della miscellanea la riporto per intero:

Pescara, 11 ottobre 2008

Al Segretario Regionale
del Partito Democratico d’Abruzzo

Ai Componenti l’Assemblea Regionale
del Partito Democratico d’Abruzzo

Loro sedi


Cari amici,
oggi non parteciperò con voi all’Assemblea regionale convocata a Sulmona.
Questa assenza è motivata da una scelta politica.
Non è ammissibile che la presidente dell’Assemblea, dott.ssa Stefania Pezzopane, dia spazio a polemiche di taglio campanilistico che, a prescindere dal merito più che discutibile, veicolano elementi pericolosi di rottura e di frizione in una regione che oggi più che mai ha bisogno di unità per superare la presente crisi economica e politica.
Come abruzzese nato da un aquilano e da una pescarese che hanno scelto di amarsi e di costruire una famiglia nei primi anni Settanta, mentre tanti loro concittadini si combattevano in una lotta tanto grottesca quanto sterile, non posso accettare che chi ha responsabilità regionali favorisca nuovi e sciagurati rigurgiti localistici.
La classe dirigente del Partito Democratico deve dimostrare di avere un progetto complessivo per tutto l’Abruzzo, evitando di percorrere la strada facile, ma pericolosa ed improduttiva, del consenso municipalistico.
Su questa posizione lo scorso anno ci siamo candidati alle primarie con le Liste di Enrico Letta che hanno ottenuto complessivamente circa il 10% dei consensi degli abruzzesi.
Questa posizione resta ancora oggi ferma per me e per gli amici che in tale linea vogliono riconoscersi.
Da qui dobbiamo ripartire per restituire forza ed autorevolezza al nostro partito anche alle prossime elezioni regionali.
Da liberale e da democratico, tuttavia, non voglio stigmatizzare o censurare comportamenti altrui, ma chiedo che la presidente Pezzopane chiarisca la sua posizione.
Se le sue dichiarazioni alla stampa sono state fraintese lo dica e contribuisca anche lei all’integrazione tra i nostri territori. Se, invece, il suo pensiero di oggi resta quello pubblicato ieri sulla stampa, credo che la dott.ssa Pezzopane non possa più essere la presidente dell’Assemblea, la presidente che anche io ho votato.
Confido che la presidente voglia chiarire al più presto la sua posizione, anche approfittando dell’assemblea di oggi e rilanciando un segnale di unità.
Fino a quando non ci sarà questo chiarimento indispensabile, per rimarcare l’importanza di questo tema, con rammarico non potrò più partecipare ai lavori dell’Assemblea regionale.
Con cordiale amicizia vi saluto tutti, augurandovi buon lavoro per l’Abruzzo


Marco Presutti

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alle 22,00 dello stesso 11 ottobre ho appreso che la mia lettera non è stata letta ai membri dell'Assemblea Regionale, né si è fatto cenno del suo contenuto neppure per sommi capi nel corso della riunione. Ne consegue che, ovviamente, la dr.ssa Stefania Pezzopane non ha chiarito in alcun modo il senso delle sue dichiarazione campanilistiche, né le ha sconfessate in alcun modo.
Ma che bel partito democratico il nostro, più che altro un democratico partito, chissà come sarà una volta arrivato.

cara Pezzopane il campanilismo è un orrore. o correggi la linea o ti dimetti : a te la scelta

Da tempo sono avvezzo a leggere e sentire di tutto dagli esponenti della sedicente classe dirigente al vertice del mio partito in Abruzzo. Per fortuna, però, mi riesce ancora di indignarmi quando viene superata oltre una certa misura la linea della decenza.
Ne ho avuto conferma oggi quando a pagina 13 del Centro (ed. del 10 ottobre 2008) ho letto:

«Nuova sede, solo sprechi».
Pezzopane: no al palazzo della Regione a Pescara
Alla vigilia della cerimonia di inaugurazione (della nuova sede del Consiglio regionale a Pescara) lo scontro si infiamma per la dura presa di posizione del presidente della Provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane presidente del Pd, che ha declinato polemicamente l’invito a partecipare all’evento formulato dal presidente del Consiglio regionale, Marino Roselli suo collega nel Pd.
«L’ho fatto», spiega la Pezzopane, «perché ritengo inopportuna la scelta di creare inutili doppioni, per ragioni economiche, sociali e politiche. E’ singolare che solo in Abruzzo, proprio nell’era dei collegamenti telematici, si senta la necessità di moltiplicare sedi ed uffici, in spregio alle spese che questo comporta, e all’offesa che si arreca al capoluogo istituzionale e alla sua popolazione della Provincia dell’Aquila, già umiliata da un depauperamento senza precedenti nella storia di questa città».


Questa lettura mi ha lasciato prima attonito e poi mi ha suscitato un'indignazione emula dei buoni vecchi principi di Giovenale.
Non è più ammissibile tollerare tanta faziosità da parte di chi ha responsabilità istituzionali.
In Abruzzo abbiamo sempre più bisogno di unità tra i territori, soprattutto in un momento di crisi come questa. E cosa succede invece? Una presidente di Provincia risuscita una polemica campanilistica degna degli anni più bui del Novecento.
Una presidente di Provincia che per di più è anche presidente dell'Assemblea Regionale del Partito Democratico.
Evidentemente, però, la consapevolezza dei doveri imposti dal ruolo sono meno forti degli appetiti elettoralistici che la demagogia e il campanilismo possono soddisfare con poca spesa, anche se con molti danni.
Io voglio sperare che la posizione della Pezzopane sia frutto di un fraintendimento. Se è così che la presidente intervenga e corregga l'errore. Ma se così non è, allora dobbiamo prendere atto che la Pezzopane non è adeguata a svolgere la funzione di presidente dei democratici d'Abruzzo.
Per questo chiedo alla Pezzopane di assumersi le sue responsabilità: o corregge il tiro, o si dimette.
Io nel frattempo non prenderò più parte all'Assemblea Regionale del Partito fino a quando la presidente non avrà voluto chiarire la sua posizione.
Ne va della dignità del partito, ne va della nostra credibilità di "classe dirigente" in grado di proporre idee per lo sviluppo di tutto l'Abruzzo, ne va di una concezione della politica come rappresentanza di interessi generali e non di particolarismi di orticello e e di bottega.

mercoledì 1 ottobre 2008

la malattia della scuola? la cattiva pedagogia

Tra le più grandi fortune della mia vita c'è quella di aver conosciuto e di aver potuto scambiare qualche parola con Luciano Canfora. Uno dei pochi maestri ancora in circolazione, uno di quelli di cui bisogna "leggere tutto". Anche sulla scuola il suo pensiero è nitido, corrosivo, salutare, come lo è la sua filologia.
Riporto per intero la sua intervista del 29 settembre scorso al quotidiano "Libero". L'intervista, a pag. 33 del quotidiano, è di Miska Ruggieri. Il titolo è eloquente : "Scuola malata di cattiva pedagogia".

"A Cividale del Friuli, al convegno internazionale di storia antica “Ordine e sovversione nel mondo greco e romano” organizzato dalla Fondazione Canussio, ha trattato della costituzione mista, dalla celebre definizione di Polibio a Machiavelli. Ma lo storico e filologo Luciano Canfora non si tira certo indietro davanti ad argomenti di attualità. Tanto che, la settimana scorsa, durante un dibattito pubblico, al romanziere spagnolo Arturo Perez-Reverte, che proclamava la fine dell’Occidente, non meritevole nemmeno di compassione, rispondeva di riporre tutte le sue speranze nella scuola.

Professore, mostra un ottimismo davvero sorprendente.
«Beh, è un ottimismo di lunga durata. Ormai quelli che cambiano il mondo sono coloro che lavorano con il cervello, ci sara sempre più lo sfruttamento delle qualità mentali più che fisiche, non solo per creare rna anche per far funzionare Ie cose. Quindi la scuola non può che essere in primo piano. I professori sono un ceto sofferente, i peggio pagati, dequalificati e quel che si vuole. Però hanno anche grandi responsabilità. Bisognerà inevitabilmente puntare su di loro».

Perciò una riforma della scuola è urgentissima.
«Riformare la scuola significa riformare tutta la società. Perché altrimenti ci saranno sempre differenze abissali tra un istituto dello Zen a Palermo e uno del centro di Milano. Bisogna creare attorno alla scuola e ai docenti altri operatori che diano loro aiuto. Certo, questo puo apparire rivoluzionario e pure utopistico, comporta un costo enorme in denaro e nessun partito sottoscriverebbe un tale programma, visto che anzi tutti tendono ad accorciare il percorso scolastico. Io invece lo allungherei, fornendo anche spazi, biblioteche, strumenti, insegnanti di supporto per il pomenggio».

Le riforme di Berlinguer e della Moratti sono state un disastro.
«Berlinguer ha squalificato l’Universita, abrogato i concorsi di accesso alla scuola e inventato le famigerate Siss. Ha rovinato un’intera generazione».

Cosa ne pensa dei primi provvedimenti della GeImini?
«Dell’obbligo del grembiule nulla di particolare: puo essere utile per i più piccoli. Non mi piace, invece, il ritorno al maestro unico. Poteva andare bene nel passato, quando molte maestre hanno compiuto atti di eroismo operando in situazioni disagiate. Ma adesso è fuori dal tempo. Ci sono classi con disabili, con extracomunitari che non conoscono l’italiano, tutti insieme. Una persona da sola si spara…».

Una motivazione è economica. Meglio pagare bene cento persone che male mille.
«Se il problema principale sono i soldi, facciamo prima a chiudere le scuole per dieci anni.. Per risparmiare si potrebbero intanto evitare gli invii di truppe all’estero».

Però quello della stipendio è un grande problema. Ha visto in tv la hostess dell’Alitalia sdegnata per essere stata paragonata a un insegnante di liceo?
«Con tutto il rispetto per la reazione istintiva di una persona che forse non sa nulla del mondo della scuola, il tono era sbagliato. Ma il problema è più complesso. Sono venute meno quelle forze politiche, specie di sinistra, e sindacali in grado di far ragionare i loro simpatizzanti o iscritti in termini di interessi generali. Ogni segmento pensa ai fatti propri e chi se ne importa dell’insieme».

Ormai i contenuti sono diventati un optional, annegati in un mare di pedagogia.
«Sono molto ostile al vaniloquio pedagogico. Nelle Siss, per fortuna ora interrotte, per un anno non si faceva altro che chiacchiericcio sui metodi di insegnamento. Come insegnare la teoria del nuoto. Assurdo: si impara a insegnare appunto insegnando. Ridiamo piuttosto la centralità ai contenuti, alla trasmissione di un sapere specifico».

Nel suo pamphlet Filologia e libertà invoca per esempio l’insegnamento del latino dei moderni.
«E un mio pallino. Il latino non e mica finito con Cassiodoro, ha avuto una vitalità lunghissima, Erasmo, Galileo, Leibnitz, Newton, Kant e tanti altri scrivevano cose fondamentali in latino. Perché a scuola i professori devono spiegare come la lingua di Plauto sia diversa da quella di Tacito e non sprecano una parola sulle differenze, per esempio, con Bacone? Oppure perche nessuno si occupa della Vulgata di Girolamo, un fior di latino assai diverso da quello classico? E’ una mentalità davvero angusta. Eppure gli studenti si divertirebbero».

Prendendo spunto dal titolo del convegno, una buona ricetta per la scuola potrebbe essere più ordine gentiliano e meno sovversione sessantottina?
«La riforma di Gentile è stata rivoluzionana, uno svecchiamento del modello ottocentesco, e non ha nulla a che vedere con il fascismo, che diventa regime solo dopo il delitto Matteotti. Tanto è vero che è stata pensata insieme a Croce, allora ministro del governo Giolitti. Del resto, anche Gramsci nei Quaderni ne indicava i lati positivi. La vera riforma fascista è stata quella di Bottai, della scuola media unica. Una riforma necessaria (poi annullata da Badoglio come tutti i provvedimenti del regime, anche quelli giusti) che ci siamo dovuti reinventare. Il ‘68 invece è stato un gigantesco movimento liberale, che ha finito per approdare all’anarchia, alla nullità del facciamo quello che ci pare. I sessantottini si dicevano marxisti o maoisti soltanto perché quello era l’unico linguaggio rivoluzionario a disposizione. Ora per fortuna sono in pensione".

"Sono molto ostile al vaniloquio pedagogico". Che dire? Canfora mi regala un bellissimo motto.

lunedì 22 settembre 2008

Una road map europea per il Caucaso

da Il Messaggero dorso Abruzzo cronaca di Pescara del 21 settembre 2008

"La Sala consiliare del Comune di Pescara ospita domani alle ore 18 un convegno sul tema “Una road map europea per il Caucaso”, organizzato dalla Fondazione Europa Prossima e con illustri ospiti nel ruolo di esperti. Dal presidente della stessa Fondazione, un’anticipazione delle ragioni e dei contenuti di quest’evento.

di MARCO PRESUTTI*

"Una road map europea per il Caucaso". Il tema che la Fondazione Europa Prossima ha scelto per il convegno di domani pomeriggio rischia di evocare la dimensione dell'utopia, di fronte all'irrilevanza dimostrata dalle istituzioni europee nel corso della gravissima crisi georgiana di agosto. Malgrado il dinamismo personale dimostrato anche in questa occasione da Sarkozy nella veste di presidente di turno dell'Unione, è risultata evidente la mancanza di una condivisione delle nazioni europee sulle strategie da adottare di fronte all'esplodere della tensione nell'area caucasica. Tra la nuova politica russa di potenza e quella americana di allargamento di influenza nello scacchiere caspico, delicatissimo per le forniture degli idrocarburi, l'Unione europea rischia di essere la grande assente, inibita dalla dipendenza dalle forniture energetiche russe e da un atlantismo in ribasso dopo la presidenza di Bush.
Eppure questa materia ci riguarda profondamente, non solo per solidarietà umana nei confronti delle popolazioni di quelle terre martoriate, vittime di potenze che le usano come pedine del Risiko, ma anche perché il Caucaso rappresenta lo snodo di un sistema di tre mari: Caspio, Nero e Mediterraneo sono vitali per il futuro della nuova Europa e ancora di più per noi che nell'Adriatico rappresentiamo il polo terminale di questo grande sistema di comunicazione. Non possiamo rimanere inerti. Con Emma Bonino, vice presidente del Senato, Lucio Caracciolo, direttore di "Limes", Giuseppe Cucchi, di "Nomisma" e Nicola Maria Toraldo-Serra cercheremo di capire quale ruolo dobbiamo svolgere come europei.

*Presidente Fondazione Europa Prossima ".

domenica 21 settembre 2008

Amore per la verità, amore per la scuola

Questo ho pensato leggendo in ritardo il bellissimo articolo di Giorgio Israel sul Messaggero del 15 settembre scorso, primo giorno di scuola.
Lo riproduco a beneficio di tutti gli amici che passassero da queste parti e che condividessero gli stessi sentimenti e le stesse ragioni per la scuola e per i nostri studenti.

"Primo giorno di scuola
L’anno scolastico si apre in una fase cruciale per il futuro della scuola italiana. È da augurarsi che prevalgano atteggiamenti razionali e costruttivi, che si prenda atto dei problemi anziché oscurarli con gli slogan, le fasce nere al braccio e le occupazioni di scuole. Si ripete ogni giorno che nessun paese come l’Italia ha tanti insegnanti mal pagati e frustrati. Non è razionale ignorarlo e chiedere altre infornate di precari. L’era della scuola come ammortizzatore sociale è finita ed è irresponsabile tentare di perpetuarla. La nostra scuola è afflitta dal bullismo, dalla mancanza di disciplina e dal disordine. Non è razionale opporre alle misure del ministro Gelmini sul ripristino del voto in condotta, dei voti in pagella e del recuperi dei debiti formativi, il solito “ben altro servirebbe” , che si riduce a riproporre ostinatamente le ricette che hanno condotto all’attuale situazione. Grandinano sulla nostra scuola valutazioni negative che collocano a livelli molto bassi i nostri studenti, soprattutto per le conoscenze matematiche e linguistiche. Nell’impossibilità di ignorare questi fatti, troppi si comportano come se dipendessero da tutto salvo che dalla scuola: per loro, è come se si trattasse degli effetti di una grandinata su un magnifico vigneto. Tutto ciò è ridicolo. I pessimi rendimenti della scuola italiana non sono effetto del destino cinico e baro.
È quindi da sperare che, di fronte ai provvedimenti presi dal Ministro Gelmini – e da quelli che seguiranno – ci si astenga da agitazioni inconsulte e irragionevoli; tanto più in quanto basta guardare ai sondaggi in rete dei maggiori quotidiani per constatare che questi primi provvedimenti ottengono gradimenti dall’80% al 90%. È inutile illudersi di essere maggioranza solo perché si strilla di più, parlare a sproposito di “rivolta delle famiglie”, opporsi a tutti i costi avanzando quelle che Mario Pirani ha definito critiche «fastidiose e inconcludenti mosse in nome di uno slogan tipico degli eserciti destinati alla sconfitta: “indietro non si torna”». Quando “Famiglia Cristiana” accusa il Ministro di procedere senza dibattiti e confronti con il mondo della scuola, e senza consultare esperti, «solo con le competenze di casa sua, la madre e la sorella maestre» non soltanto ricorre a polemiche di infimo livello, ma rivela il vero intento: quel che si vuole non è tanto il dialogo quanto il continuare a considerare come referente principale e unico “competente” quel complesso sindacale-psico-pedagogico-docimologico che domina la scuola da trent’anni e che è responsabile del suo stato attuale. Altrimenti, si dice, «la scuola resterà, come diceva don Milani, un ospedale che cura i sani e rifiuta i malati». Il fatto è che la scuola che cura i sani e rifiuta i malati è proprio quella di oggi, più di quella di ieri. Dopo aver predicato per decenni contro la “scuola di classe”, essa è stata finalmente realizzata, appiattendo tutti verso il livello più basso anziché motivare tutti a elevarsi verso l’alto. In nome dell’interesse primario per il “malato” abbiamo creato una scuola dequalificata che lascia soltanto ai figli dei colti e dei ricchi la possibilità di andare avanti mentre i “malati” sono condannati a restare tali, se non ad ammalarsi più gravemente. È probabile che oggi don Milani, da persona intelligente e intellettualmente onesta, si metterebbe le mani nei capelli nel vedere a cosa ha condotto la demagogia egualitarista e prenderebbe le distanze dal “donmilanismo”, a differenza chi si crogiola nel conservatorismo delle idee preconcette e degli interessi costituiti.
Il conservatorismo si nutre di slogan ripetuti ossessivamente senza riguardo ai fatti. Il più clamoroso di questi slogan è la formula secondo cui la scuola elementare italiana sarebbe una delle migliori del mondo e l’introduzione del maestro unico distruggerebbe il “fiore all’occhiello” della nazione. Si citano statistiche che proverebbero tale qualità, tra cui un recentissimo rapporto Ocse che, nel sottolineare la generale catastrofe della scuola italiana, salverebbe le primarie. Non si dice però che anche questo rapporto riguarda dati meramente strutturali e non ha preso in esame la qualità degli apprendimenti: che l’Italia investa nella scuola primaria più risorse della media Ocse è evidente (visto il numero di maestri!) e soltanto per questo si colloca in buona posizione. Ma ciò non dice nulla sui risultati di tali investimenti! Difatti, la stessa Ocse ha osservato che il vero problema è che i fondi sono spesi esattamente all’opposto di quanto fa la Corea del Sud dove vi sono meno professori e meglio pagati. E pure entro il quadro Ocse – le cui primarie sfigurano rispetto a quelle di diversi paesi emergenti – le classi elementari italiane hanno un numero di alunni inferiore alla media e tempi netti di insegnamento molto bassi.
Chi ripete lo slogan che la scuola primaria italiana è tra le migliori del mondo sfrutta la buona fede di chi crede che essa sia sempre la stessa e non sa che è stata rivoltata come un calzino dal 1985 in poi. Essa è piuttosto il fiore all’occhiello del pedagogismo dell’autoapprendimento, dell’“apprendere ad apprendere” in barba alle conoscenze, del “meglio una testa vuota ben fatta che una testa piena”. È la scuola in cui non si insegnano i “fatterelli” della storia – come ha scritto una maestra su questo giornale – bensì si studia la linea del tempo, le dinamiche astratte dei processi storici, le “cause” del crollo degli imperi senza conoscere un solo impero reale. È la scuola in cui la geografia è studio astratto della “spazialità”, analisi del “davanti”, “dietro”, “sopra” e “sotto” (orrendamente chiamati “indicatori topologici”). È la scuola in cui la matematica è ridotta a manipolazioni con disegni e colori. È una scuola frantumata in miriadi di “offerte formative” disparate: sicurezza, privacy, prevenzione incendi, progetti di canto, teatro, danza, fotografia ecc.
Si guardi inoltre al percorso formativo attuale di un maestro. Non sono pochi i corsi di laurea che permettono di diventare maestri seguendo una trentina di ore di matematica e di storia moderna (soltanto moderna), con casi limite in cui la matematica è opzionale rispetto a materie come la pediatria. La componente psicopedagogica è dilatata in modo esorbitante fino a occupare l’80% del corso di studio relegando la parte disciplinare alla misera quota restante. Così otterremmo maestri specializzati capaci di produrre un mirabile intreccio di competenze? In realtà, oggi noi formiamo psicopedagoghi dotati di un’evanescente infarinatura di conoscenze disciplinari. Per cui, la polemica contro il maestro unico “tuttologo” è priva di qualsiasi serio fondamento.
Va comunque detto che se la scuola italiana (non soltanto la primaria) non va a fondo del tutto è per merito di migliaia di insegnanti che continuano a concepire la loro professione come una missione educativa basata sulla trasmissione della conoscenza e che, non a caso, sono considerati da certi teorici dell’ “apprendere ad apprendere” come il più grande ostacolo al dominio incontrastato delle loro fallimentari teorie".

(Il Messaggero, 15 settembre 2008)

venerdì 12 settembre 2008

Caro PD, ascolta Claudia Mancina

Stava quasi per prendermi lo sconforto. Aggredito e pressato dalla logora e retriva pletora sindacale che da sempre, in società con la congrega dei "pedagogisti democratici", detta il bello e cattivo tempo nel campo della scuola, il PD si preparava come un sol uomo alla battaglia di settembre contro Mariastella Gelmini, vituperata Ministro della Pubblica Istruzione.
Mobilitazione generale al grido : salviamo la scuola pubblica contro l'affondamento della scuola pubblica italiana. No all'autoritarismo, no al classismo, no all'impoverimento curriculare e didattico, no al ritorno al maestro unico.
Una scempiaggine colossale. La verità è che la scuola italiana è allo sfascio e che bisogna urgentemente porre dei rimedi. La strada del rigore, del ritorno alla valorizzazione del merito e dei contenuti solidi, della disciplina, del taglio dei posti inutili è la strada giusta per dei riformisti che abbiano a cuore una scuola migliore per gli italiani di domani.
Temevo quasi che il mio partito, colto da un furore dipiestrista di opposizione a prescindere, tenesse monoliticamente questa rotta sciagurata, vanificando con ciò ancora una volta l'impegno che abbiamo preso con il Paese di voler riformare l'Italia.
Per fortuna oggi sul Riformista Claudia Mancina ha detto una cosa seria e positiva. Non si tratta di combattere la Gelmini nel suo tentativo di cambiare le cose, ma di sfidarla a realizzare quello che dice, per il bene della scuola e degli italiani.
Brava Claudia, la tua è una voce democratica che canta fuori dal coro sovietico che nel partito abbiamo sentito negli ultimi giorni.

Da "IL RIFORMISTA" di venerdì 12 settembre 2008

"CARO PD LA GELMINI HA RAGIONE
DI CLAUDIA MANCINA
La scuola costituisce da sempre un lato molto esposto del profilo riformista della sinistra. Esposto, cioè, alla regressione negli antichi vizi dell`opposizione comunista: statalismo, corporativismo, propagandismo.Anche oggi il Pd sembra voler raccogliere le truppe di un`opposizione dispersa contro le misure del governo sulla scuola, promettendo un autunno caldo che ricalca quello che nel 2001 oppose il centrosinistra alla Moratti. Le ragioni di questa sensibilità non sono difficili da individuare. La prima attiene a una tradizione culturale.

La sinistra si è sempre battuta per l`efficienza e la dignità del sistema pubblico, per l`accesso egualitario, peri diritti degli studenti e degli insegnanti, per la democrazia scolastica.

Ha l`orgoglio di avere ispirato la maggiore (se non unica) riforma del dopoguerra, quella che istituì la scuola media unica. Tutti obiettivi estremamente meritori, che tuttavia non possono essere ripresentati oggi tali e quali.

Un`altra evidente ragione, meno nobile ma non meno stringente è che in questa enorme azienda e nel suo indotto - le famiglie - la sinistra trova da sempre una parte consistente e molto attiva della sua base elettorale e d`opinione, con la quale la Cgil fa da cerniera.

La centralità della scuola tuttavia si fa sentire soprattutto quando c`è da fare campagna di opposizione. Sul piano proprio del rifonnismo, dopo la stagione di Luigi Berlinguer, in gran parte fallita proprio per gli ostacoli posti dal sindacato e dal tradizionalismo della sinistra, non è che si sia visto o si veda molto, al di là di un buonsenso democristiano anni Cinquanta, rimesso in circolazione dal passato ministro e dall`attuale governo ombra.

Siamo oggi di fronte a una nuova titolare del ministero, che sta presentando qualcosa di simile a un progetto di riqualificazione della scuola pubblica in base a principi quali il merito, la responsabilità, l`autonomia e la valutazione.

Sono principi che il Pd dovrebbe condividere. L`affermazione fondamentale è che la funzione della scuola è quella di formare le nuove generazioni e non quella di combattere la disoccupazione. A partire da qui (o, con le parole di Attilio Oliva, guardando la scuola finalmente dalla parte degli studenti e non da quella degli insegnanti) andrebbe disegnato l`intervento dell`opposizione. La Gelmini dovrebbe essere sfidata a realizzare davvero quello di cui parla. Poi le sue proposte si potranno criticare, e se ne potranno fare di diverse. Ma altra cosa è tirare fuori il solito armamentario dell`attacco alla scuola pubblica, al tempo pieno all`occupazione, ai precari eccetera.
Guardiamo la questione della scuola elementare, l`unica sulla quale c`è un atto concreto (anche se ancora vago quanto all`attuazione). Si può dire che il ritorno al docente unico è solo una questione di tagli, ma è altrettanto lecito pensare che il passaggio al docente plurimo fu essenzialmente una scelta occupazionale.

Poi ci sono argomenti pedagogici a favore dell`una come dell`altra opzione. E del resto, da quando i tagli in una struttura mastodontica, costosissima e inefficiente sono un disvalore? Si dovrebbe piuttosto ragionare su quali altri tagli, magari più produttivi, siano possibili, per esempio intervenendo sull`organizzazione del lavoro e sul dimensionamento delle strutture. Ma i tagli, che sono stati resi inevitabili dalla contrazione demografica prima ancora che dalle difficoltà finanziarie, sono cominciati almeno col governo Amato (1992). Da allora, con la parentesi Berlinguer, la sinistra che si dice riformista non è stata capace di produrre un progetto per la scuola che non fosse la cieca battaglia per lasciare tutto com`era, magari spendendo di più.

La scuola italiana com`è non funziona. Non funziona come agenzia di istruzione come risulta dall`alto numero di abbandoni e come può dire chiunque insegni all`università e si veda arrivare ogni anno studenti un po` più impreparati.

Non funziona come agenzia formativa, come risulta dall`evidente crisi di identità e di ruolo degli insegnanti, dalla diffusione di comportamenti devianti tra gli studenti, dalla crescente difficoltà dei professori di coinvolgere l`interesse degli allievi sulle materie eurrieolari. Non funziona neanche dal punto di vista democratico, perché non riesce a compensare le diseguaglianze di opportunità dovute alla nascita. Sono problemi grossi, e se Veltroni pensa davvero che la formazione sia vitale per il paese dovrebbe portare il suo partito ad analizzarli e a fare proposte per affrontarli. Vorrei sentir dire al Pd che l`insegnamento è una professione, e quindi bisogna introdurre una reale differenziazione di ruoli e di stipendi tra gli insegnanti; che bisogna formarli all`uso attivo e creativo delle tecnologie nella didattica, che bisogna formare i presidi alla direzione aziendale; che bisogna accorciare il ciclo di studi di un anno, per evitare che i nostri ragazzi siano svantaggiati nel confronto con gli altri paesi europei; che bisogna abolire l`esame di maturità e sostituirlo con prove scritte corrette da agenzie esterne; che bisogna dare alle scuole reale autonomia e quindi la libertà di assumere i docenti sulla base di liste di idonei; che i genitori sono chiamati a condividere la responsabilità educativa ma non devono intromettersi nella responsabilità professionale dei docenti. Sono scelte difficili e impopolari, e il Pd non sembra intenzionato a farle. Dubito che la ministra Gelmini ci riesca, visto il destino di chi prima di lei aveva tentato alcune di queste strade. In Italia si parla molto della centralità della scuola, della sua crisi, della sua mancata altissima funzione culturale, ma poi si rifugge dallo sfidare il potentissimo blocco di opinione, trasversale agli schieramenti po1i1ici, che rifiuta qualunque intervento riformatore. Se però la ministra riuscisse a fare anche una sola delle cose di cui parla, sarebbe ancora una volta un punto per il governo e un`occasione perduta per il Pd".



Caro Walter, dici che è proprio il caso di perderla questa occasione? Io non me la perdo e per quello che posso mi impegno a favorire la riforma della scuola.

domenica 7 settembre 2008

Libera nos a schola matriarcali

Non mi capitava da tempo di leggere un articolo (sul Giornale peraltro) che condividessi dalla prima all'ultima riga.
Ieri mi è successo. Per festeggiare l'evento, riporto per intero l'intervento di Geminello Alvi sul Giornale del 6 settembre 2008 (pag. 13)

"La Gelmini ci salverà dalla scuola matriarcale"

Si vive di apparenze, giacché a ben vedere abbiamo in questa vita solo quelle. E a studiarsela nelle foto la ministra Gelmini Mariastella parrebbe perfetto archetipo di professoressa, con nome acconcio. Adatto allo scassato gineceo di laureate in crisi di nervi, che educano alla noia gli studenti con la stessa stanca fretta con cui fanno la spesa. Perché questo è ora in Italia la scuola: luogo dove non solo la cultura massificandosi s’è immiserita; come previsto da Nietzsche. Ma inoltre pure sede di procedura devirilizzante, per esclusiva somministrazione di insegnanti donna. Dalle tre maestre per classe alle schiere di casalinghe traviate nelle medie superiori, dove il livello finale di ignoranza risulta peggiore addirittura di quello europeo. E la Gelmini di questo insistito spreco di anime giovani, per via di massificazione e matriarcato, parrebbe coi suoi occhialini la perfetta incarnazione. Invece ci sorprende: da ministra, sia benedetta, difende i due atti più sani ed eversivi che potevano pensarsi. Dimagrisce in un triennio di 87 mila unità gli, e soprattutto le, insegnanti; proclama la riforma delle scuole in fondazioni. E la direi solo perciò genio virile e pratico.
La scuola di Stato fu un espediente napoleonico, col quale si costrinse l’istruzione ai tornaconti statali. L’istruzione divenne un permesso di Stato, con programma di studio prescritto, che doveva accordarsi ai fini politici. Fosse quella di Bismarck o di Crispi cambiava poco: il sistema doveva creare un’élite utile alla burocrazia prima, e nel Novecento alla massificazione, fino alla decadenza presente, di una cultura la cui misura è solo il denaro, l’economia. Questo l’esito della scuola statale: una società in cui molti, più di prima, leggono libruzzi, ma sono rare e molto desuete le menti originali e libere, anche se tutti si pretendono tali. Oggi del resto la scuola non forma neppur più le élite: asseconda le manie di massa, che l’utile inventa e la tv plasma. Questo il disastro, del quale va preso atto. Concluso da una riforma Berlinguer che ha completato la distruzione ultima di quanto non era stato già guastato dal ’68. La nostra università è ormai l’imitazione di una università americana, ma pensata da un comunista albanese. Insomma tutta la scuola ormai perpetua l’uccisione della morale e del libero pensiero, con la complicità dello Stato. E appunto perché terminerebbe questa pessima complicità, una scuola articolata in fondazioni sovvertirebbe il male, e migliorerebbe tutto.
Infatti una scuola di fondazioni, o un’università, sarebbe una nella quale i sindacati non avrebbero il consenso della politica, come lo hanno avuto per rovinare le elementari o viziare i bidelli. Sarebbe una scuola a cui lo Stato potrebbe conferire parte dei suoi immensi e morti patrimoni da far fruttare, così da limitare le spese correnti. Il conferimento di doni privati permetterebbe in sovrappiù di reclutare docenti migliori, forse anche maschi, e di pagarli meglio sulla base del loro merito. I concorsi statali per insegnanti, come i provveditorati, lande immorali, svanirebbero. Il reclutamento riguarderebbe solo il merito: sarebbe cooptazione dei migliori, senza più Tar. E sarebbe peraltro pure la fine della pessima scuola privata che ci ritroviamo. La fine del valore legale dei titoli di studio renderebbe vani i corsi di recupero. E le scuole esclusive si misurerebbero sul pregio degli insegnanti e degli alunni; non più sul censo. Conterebbe solo il pregio, il che richiederebbe finalmente la fine del libro di testo. Un sogno, nel quale la natura pubblica della scuola sarebbe peraltro garantita da borse di studio per i meritevoli. Gli altri, non nati per studiare, si addestrerebbero ai nobili lavori manuali, così da limitare gli immigrati, nonché l’odierno spreco energetico nelle palestre. Vantaggi per il bilancio statale, e per la morale, per i mestieri non celebrali, e sollievo spirituale e virile di una nazione. Questo l’esito di quanto dice ora la Gelmini, redenzione delle apparenze e delle professoresse, rivolte speriamo a altri destini.
Geminello Alvi

Parole sante.

domenica 27 aprile 2008

Non elemosina, sposalizio: san francesco e una didascalia sbagliata

Oggi apprendiamo che ad Assisi è vietata l'elemosina. Sarebbe stato un bel guaio per Francesco e i suoi compagni che spesso ricorrevano a questa pratica, quando non riuscivano a vivere del lavoro nei campi al fianco dei contadini, come ci dicono le più antiche testimonianze dei primi gloriosi anni del francescanesimo.
Un bell'articolo di Alessandra Retico su la Repubblica di oggi, 27 aprile 2008 (pagina 23), ci informa sui termini della questione. Ne risulta un quadro non entusiasmante, tra la banalità delle motivazioni repressive del Sindaco e delle giustificazioni del custode del Sacro Convento. Paradossalmente molto migliore la posizione ufficiale del Vaticano, che del resto è rappresentata da un gentiluomo come Mons. Renato Martino.
Intollerabile, però, è la didascalia che presenta un'immagine posta al centro della pagina, il cui tema, come è evidente, è il matrimonio di San Francesco con Madonna Povertà. Si coglie bene, infatti, il Santo nell'atto di infilare l’anello nuziale al dito di una donna bella e misera, allegoria della scelta di vita di radicalismo evangelico adottata dal Santo.
Questa allegoria viene sviluppata in lungo e in largo nelle Fonti Francescane e in particolare nel “Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate”, un trattato che verosimilmente ispira l’affresco riprodotto a illustrazione dell'articolo. Purtroppo, a causa della mia ignoranza nelle arti figurative, non sono in grado di contestualizzare l’opera in questione, che appare grosso modo quattro/cinquecentesca.
Il problema è che chi ha curato l’articolo al desk del quotidiano romano ha del tutto inverosimilmente riportato in didascalia: “San Francesco raffigurato proprio mentre fa l’elemosina a una mendicante”.
Proprio no. Il Santo qui non fa l’elemosina, qui egli sposa la povertà, compiendo una scelta d’amore totale che risulta antipodica alle scelte amministrative dei suoi concittadini oggi al potere.
Il povero non solo accolto, ma voluto come compagno di vita.
Questa, peraltro, poteva essere una chiave di lettura ancora più interessante per porgere la notizia e far riflettere il lettore, ovvero il lavoro che mediamente un buon giornalista ogni giorno si propone di fare.
Questa osservazione, per nulla pignola, vuole essere un invito a condividere una riflessione. L’amore per la conoscenza consente sempre di cogliere qualche frammento nuovo di verità, che la fretta compulsiva della digitazione al desk spesso oscura.