martedì 1 novembre 2011

Il senso vero dell'incontro di Todi. Il nuovo impegno dei cattolici italiani


Berlusconi sì, Berlusconi no, nuovo partito cattolico sì, oppure meglio di no, a leggere i resoconti giornalistici del seminario “La Buona Politica per il Bene Comune”. I cattolici protagonisti della politica italiana svoltosi a Todi lo scorso 17 ottobre per iniziativa del Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel Mondo del Lavoro, si trova la conferma che lo sport nazionale è la lettura dell'ombelico, ovvero l'incapacità di andare oltre la polemica del momento. Ai commentatori che in gran numero hanno assediato la quiete del convento francescano di Montesanto interessava capire se l'iniziativa fosse finalizzata a dare il benservito a Berlusconi e a mettere in campo una cosa bianca, magari in grado di puntellare un claudicante centrosinistra (malgrado tutto) o di sostituire il Pdl nella guida dei moderati.
Considerato da questo angusto orizzonte d'attesa, l'esito dell'incontro potrebbe essere rubricato come una mezza delusione; solo la conferenza stampa finale ha concesso qualcosa ai desideri dei titolisti con le parole di Raffaele Bonanni, segretario generale della CISL, che ha richiamato l'esigenza di un governo più forte dell'attuale. L'aspetto più grottesco di questa smania politico-mediatica, comunque, è stato raggiunto dal Presidente Berlusconi che martedì 18 ha dichiarato in un comunicato ufficiale che il convegno non si era svolto per dare una spallata al suo governo.
Ma nessuno era andato a Todi per interpretare un nuovo atto nelle farse da teatrino dei pupi che occupano lo spazio pubblico italiano. Al contrario i partecipanti al convegno, esponenti delle principali organizzazioni cattoliche all'opera nel tessuto sociale (una galassia che raduna diversi milioni di iscritti), erano ben decisi a risultare dissonanti rispetto ai motivetti tanto in voga.
Dissonanti per prima cosa perché ben saldati nel tempo e nelle sue dimensioni, e quindi liberi dall'appiattimento sull'ora presente. Né può essere altrimenti per i rappresentanti di un mondo, quello del cattolicesimo sociale, che ha espresso la migliore classe dirigente dell'Italia repubblicana, di cui ha accompagnato con successo la crescita economica.
La novità di Todi, dunque, consiste nella scelta di tornare a riunirsi nella consapevolezza che la crisi del Paese non consente più di restare a guardare e di cedere deleghe a chi palesemente non è più in grado di promuovere il bene comune.
Proprio questo fine è il discrimine tra il modo di condurre la vicenda politica in auge e il modo nuovo su cui i cattolici intendono compiere un percorso unitario al servizio della società. Non è più tempo di battaglie per sostenere un interesse o una parte politica a scapito dell'altra e dell'intera nazione.
L'uomo politico deve operare per il benessere dei cittadini e non per il successo personale, perché a questo lo vincola la dignità dell'uomo che è il fondamento e il fine della società. Non un valore trattabile, ma un bene indisponibile che trova la sua origine nell'opera creatrice di Dio.
Per questa ragione il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della CEI, nell'aprire i lavori del seminario ha detto che non riconoscere la dimensione pubblica della religione significa anche creare una società incapace di … attuare il bene comune, scopo della società giusta. Il bene comune - ha detto infatti il cardinale Bagnasco - comporta tutte le dimensioni costitutive dell'uomo e quindi deve riconoscere anche la sua apertura a Dio, la sua dimensione religiosa.
Per questa ragione il Cardinale ha richiamato l'attenzione su questioni cruciali che riguardano le sorgenti stesse dell'uomo: l'inizio e la fine della vita umana, il suo grembo naturale che è l'uomo e la donna nel matrimonio, la libertà religiosa ed educativa che è condizione indispensabile per porsi davanti al tempo e al destino … proprio perché sono sorgenti dell'uomo, questi principi sono non negoziabili".
L'impegno pubblico dei cattolici, comunque, non intende in alcun modo proporsi in modo confessionale, poiché lo stesso Papa, parlando di recente al Parlamento tedesco, ha ricordato che il cristianesimo non ha mai voluto fondare il diritto sulla rivelazione, ma sulle fonti comuni della ragione e della natura.
L'impegno assunto dall'associazionismo cattolico a Todi riguarda, pertanto, prima ancora che la fondazione di un soggetto partitico, la volontà di rinnovare la stessa politica italiana. Il contrasto al soggettivismo etico, la difesa dei valori umani, la promozione della coesione sociale e la lotta alle diseguaglianze economiche sono i campi nei quali si svolgerà la nuova stagione della partecipazione dei cattolici alla vita politica del Paese. Questa la grande novità che Todi ci consegna a dispetto di tanti (intenzionali) fraintendimenti mediatici.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 32 del 22 ottobre 2011, p. 9

Irresponsabili siamo noi, non i nostri ragazzi


I giovani sono irresponsabili. Puntuale come la pioggia del fine settimana, questa geremiade si rinnova generazione dopo generazione da quando l'uomo ha imparato ad esprimere i suoi pensieri. Condividerla si può considerare un sintomo precoce di vecchiaia. Anche se oggi pare a molti che l'irresponsabilità abbia preso stabilmente piede tra i passi dei nostri ragazzi sneakerscalzati. Io, tuttavia, mi porrei una domanda. Ma noi, i loro formatori, siamo responsabili? Sapremmo rispondere sul valore della formazione che stiamo costruendo con loro? Potremmo con serena coscienza affermare che li stiamo preparando bene all'avvenire che li attende?
Posso parlare per me, per quello che vedo e conosco, ma non sarei ottimista. Temo che la risposta debba essere dubbia, se non francamente negativa.
È un fatto che coloro che saranno protagonisti di un'economia e di una società in cui il vero petrolio sembra essere quello della conoscenza, possono contare su una formazione liceale e universitaria di gran lunga più carente di quella di cui fruivano i loro nonni, che pure avrebbero vissuto in una società in cui non la conoscenza o i progetti, ma i capitali e i ceti di provenienza determinavano gli esiti dei percorsi di vita. Il grande paradosso è che potevano contare su un'istruzione migliore coloro che erano condizionati da una società rigida, mentre oggi, in un universo liquido nel quale le risorse finanziarie sciamano verso le buone idee come api impazzite, è più facile trovare un ragazzo con tanti soldi in tasca che uno che possa fare buona figura in un serio colloquio di lavoro.
Se vogliamo aiutarci ancora con le immagini, io credo che un adolescente che fosse nato nella prima metà del Novecento si trovasse a dover scalare una difficile parte rocciosa nel primo quarto della sua vita, ma conquistata la cima poteva marciare su un lungo e solido altipiano. Non era una passeggiata, ma le gambe temprate dall'ascesa non mancavano mai il passo. Un ragazzo nato nell'imminenza del crollo delle torri gemelle si trova in un percorso concepito come uno scivolo d'acqua. Si procede agilmente anche senza far nulla e l'acqua elimina ogni possibile attrito. Non solo, ad ogni curva c'è lo spazio per gridare uno yuhuuu , perché un piccolo brivido non guasta mai. È un problema? È un guaio che un ragazzo non debba fare la fatica della salita impervia e possa concedersi una piacevole discesa? È opinabile, anche se reazionario come sono sarei portato a pensare di sì. Una cosa è sicura però. Al termine di uno scivolo ad acqua ci vuole una piscina. I nostri ragazzi, invece, al termine del loro yuhueggiare si trovano spinti da un'inesorabile catapulta contro una parete priva di appigli. Ce la fa a salire in cima solo chi si ritrova con polpastrelli da geco.
Fuor di metafora, dopo un percorso formativo connivente e di manica larga, nel quale si considera già meritoria la fatica quotidiana di andare a scuola senza prendere a sediate docenti e compagni di corso, perché i ragazzi di oggi si sa come sono (come se Nostro Signore da un certo punto in poi avesse preso a fare le teste in modo diverso, ignorando che i ragazzi diventano anche quello che noi li sollecitiamo ad essere), di colpo il neodottore, o il neodiplomato, si ritrova di fronte a una società ferocemente matrigna che chiede venticinquenni con esperienza trentennale nella conduzione di un reattore nucleare (cit. Fantozzi), disposti a lavorare 12 ore al giorno gratis, perché ti do un'opportunità, che fa vuoi pure lo stipendio?
Ecco, io da quando lavoro a scuola mi pongo questa domanda. Sono irresponsabili loro, o lo siamo noi che li prepariamo così? Penso che sia vera la seconda risposta e penso che meriteremmo l'inferno come educatori incapaci di preparare alla vita le intelligenze meravigliose che il Signore ci fa incontrare ogni giorno.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 31 dell'8 ottobre 2011, p. 3

Giustizia e umanesimo, la grande lezione di Benedetto XVI al Parlamento tedesco


Papa Benedetto XVI parla al Bundestag il 23 settembre 2011 

Una grande lezione sull'uomo, sulla sua dignità, sul significato della sua esistenza. Potremmo descrivere così la visita di Papa Benedetto XVI in Germania, la sua nazione d'origine, svoltasi dal 22 al 25 settembre. Quattro giorni densi di incontri, di discorsi, di celebrazioni liturgiche,  nei quali il Papa ha voluto confrontarsi con le pluralità all'opera nella società tedesca sul piano confessionale, economico e politico. La cordialità è stato il tratto prevalente della visita apostolica, non quella fredda dell'etichetta, ma quella che nasce dall'apertura del cuore, soprattutto nel confronto con i più lontani, con gli appartenenti a altre confessioni, come i protestanti, o ad altre religioni come gli ebrei e i musulmani, o con i rappresentanti di una società largamente secolarizzata e talvolta sorda al messaggio cristiano.
Questa apertura all'altro da sé costituisce, del resto, la disposizione naturale dell'animo cristiano è chiamato a vivere un'esistenza che è “pro-esistenza, un esserci per l'altro, un impegno umile per il prossimo e per il bene comune”, come ha detto il Papa nell'omelia pronunciata il 25 settembre a Friburgo. Un'umiltà che non è virtuoso formalismo, ma in primo luogo adesione alla realtà, come spiega la stessa radice della parola che viene da humus, ovvero da terra.
Nell'umile apertura all'altro, riconosciuto nella sua diversità, si coglie che “non è l'autorealizzazione, il voler possedere e costruire se stessi, a compiere il vero sviluppo della persona, cosa che oggi viene proposta come modello della vita moderna … È piuttosto l'atteggiamento del dono di sé, la rinuncia a se stessi” che ci orienta verso il prossimo e quindi verso noi stessi.
La responsabilità verso l'altro chiama in causa la dimensione della politica, alla quale il Papa ha dedicato il suo discorso più impegnativo, pronunciato il 23 settembre di fronte al Parlamento tedesco. Benedetto XVI ha ricordato che compito dell'uomo di governo è servire il diritto e combattere l'ingiustizia, ben sapendo che il potere senza diritto porta alla distruzione della giustizia, come è accaduto nei regimi totalitari. Anche nelle democrazie, tuttavia, è necessario sapere cosa sia veramente giusto e idoneo a divenire legge, poiché soprattutto in alcune questioni che riguardano l'uomo non è possibile affidarsi al criterio della maggioranza.
Su questo punto il Papa ha richiamato la tradizione della cultura europea frutto dell'incontro tra la fede nel Dio d'Israele, la ragione filosofica dei Greci e il diritto di Roma. In questo solco si è mosso il Cristianesimo che “non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto - ha rimandato all'armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un'armonia che però presuppone l'essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio”. Negli ultimi anni, però, si è affermata in Occidente una visione positivista che considera natura e ragione solo in termini funzionali, negando il fondamento etico del diritto. Il Papa ha evocato l'immagine di edifici di cemento armato senza finestre, privi di aperture al mondo vasto di Dio. Una visione angusta che mette a rischio la stessa dignità dell'uomo e la sua libertà.
Benedetto XVI ha ricordato che sul fondamento della fede in un Dio creatore si è formata l'idea dei diritti dell'uomo, dell'eguaglianza degli uomini davanti alla legge e della responsabilità delle persone riguardo al loro agire. Per questa ragione occorre salvare questa radice culturale in modo da conservare ancora oggi un cuore docile in grado di distinguere il bene dal male e di fondare un diritto che promuova la giustizia e la pace.
Un discorso formidabile che ogni politico europeo dovrebbe meditare lungamente per ritrovare il senso di un percorso millenario al servizio della promozione della persona.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 30 dell'1 ottobre 2011, p. 9

Il valore dell'ozio


Esiste un rovescio della medaglia nella nostra condizione  di consumatori di quello che non produciamo. L'essere ingranaggi di un meccanismo che non ci abbandona mai, che ci tiene in attività in ogni momento senza consentirci mai di disporre di noi stessi. Le persone sono talmente disabituate a starsene quiete per i fatti loro, che non appena si trovano libere dal lavoro si imbattono in un altro impegno, che vorrebbe essere d'evasione, ma che in realtà non differisce molto da quello professionale per energie, modalità e ritmi richiesti.
Non a caso, quando in Gran Bretagna si decise di obbligare i datori di lavoro a concedere una settimana di ferie stipendiate ai loro dipendenti (correva l'anno 1936), venne fuori un certo Billy Butlin che organizzò a tempo di record colonie estive che offrivano un programma talmente denso di impegni da assorbire ogni momento delle giornate di riposo dei lavoratori. Vacanze estenuanti, varrà il caso di dirlo, ma tali da impedire alle masse avvezze a subire il giogo dell'ufficio o della fabbrica di trovarsi disorientate a dover gestire un tempo che d'un tratto si faceva vertiginosamente vuoto.
Malgrado la crisi economica e il conseguente assottigliarsi delle finanze personali, anche oggi la fabbrica delle vacanze non conosce soste, magari diminuiscono i giorni, si fanno più corti i tragitti, più essenziali i trattamenti, ma resta lo scopo essenziale: evadere da se stessi, dal rischio di trovarsi improvvisamente privi delle occupazioni e dei doveri che fanno le giornate magari tetre, ma libere dalle insidie dell'introspezione.
Forse, approfittando del conto corrente in rosso, evitando la sventura di un nuovo finanziamento per spese di consumo, bisognerebbe trovare il coraggio di trascorrere le ferie dandosi all'ozio, al tempo per sé senza l'incubo dell'orologio, delle file, dei turni, delle scadenze.
Ritornare come quando si era ragazzini a vivere i lunghi pomeriggi estivi animati dall'immaginazione che popolava un mondo più vasto della nostra stessa curiosità.
Alzarsi quando si vuole, mangiare quando si ha fame, frugare tra cassetti colmi di speranze dimenticate, alternare un film a un libro, senza risolversi a preferirne uno in particolare, andare a zonzo per le strade quando s'avvicina la sera e la città s'intride del profumo dei pini e del mare, girare per i borghi vicini quando non vi sono le dannate sagre. Perché bisogna stare attenti, l'ingranaggio è inesorabile, basta fare la fila per il biglietto che serve a fare la fila per prendere la pasta fredda che ci si ritrova nella fabbrica vacanziera sempre in agguato dalle nostre parti. E sì, anche saper oziare richiede la sua brava fatica. Ma qualche volta fa scoprire che possiamo essere grandi amici di noi stessi.

pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 24 del 13 agosto 2011, p.3

Crisi tra ieri e oggi


Refrattari come siamo alla responsabilità, intendiamo come un moloch, come un sinistro babau la parola crisi, che pure nella sua radice greca non significa di per sé sciagura o rovina. Krisis è il momento della distinzione, della scelta, del processo, del giudizio, della soluzione.
Sia che ci si trovi a dover scegliere tra opzioni differenti, sia che si debba vagliare, o far vagliare, quello che si è fatto, krisis è il sentiero che ci porta oltre.
Per chi ha buona coscienza è un percorso agevole; Demostene accusato da Eschine poteva dire agli Ateniesi: «penso che nei miei atti politici ci sia la possibilità di giudicare» (en tois pepoliteumenois ten krisin einai nomizo XVIII 57).
Oggi siamo collettivamente molto meno baldanzosi di fronte al passaggio della crisi. Di fatto è come se venissimo convocati per un esame severo, sapendo di aver sfogliato di malavoglia i libri. Non si dorme.
La crisi, dunque, prima che l'economia devasta la nostra cattiva coscienza.
Sia a livello internazionale che a livello locale non sarebbe stato arduo rendersi conto che il sistema rischiava di essere insostenibile. Nel primo caso che il dato virtuale della finanza soverchiasse di gran lunga l'economia reale era un campanello d'allarme eloquente. Sul piano regionale il discorso è più lungo: una rete infrastrutturale insufficiente e priva di efficaci connessioni intermodali, il modesto dimensionamento delle imprese locali, la non efficace interlocuzione con gli insediamenti industriali esogeni, l'elevato costo dell'energia e della fiscalità, l'assenza di un forte soggetto creditizio abruzzese, la spesa sanitaria da troppo tempo fuori controllo, la debolezza del sistema formativo, la dipendenza di interi pezzi di territorio dalla spesa pubblica (soprattutto nelle aree interne), una classe dirigente orientata soprattutto alla difesa del proprio particulare. Un quadro non lusinghiero che fotografa la tendenza a tirare a campare, non senza una spudorata attitudine a vivere il presente ipotecando il futuro.
Il sintomo più eloquente di questa condizione è l'incapacità di offrire una risposta convincente e credibile alla crisi, un progetto in grado di reagire alle angustie presenti per fondare un nuovo benessere economico e sociale. In realtà anche questo rientra nella cifra della rimozione del significato di krisis, che vuol dire anche esito, conclusione. Per farlo bisognerebbe essere capaci di affrontare di petto il futuro, ma in realtà si tiene la testa volta al passato, in una sorta di rimpianto per i bei tempi che furono. Anni formidabili in cui alla mancanza di entrate si sopperiva attingendo largamente a risorse nazionali (svantaggiando altri territori) e ricorrendo allegramente al debito, anni di economia assistita senza alcune riguardo per modi, qualità e valore del fattore produttivo, purché si garantisse occupazione. Non ridistribuzione della ricchezza prodotta, ma distribuzione di ricchezza anche a costo di sottrarla alle generazioni di là da venire.
Del resto James Hillman osservava nel suo fortunato saggio Kinds of Power che nel XX secolo l'economia ha preso nelle anime il posto che prima aveva la religione. Da questo punto di vista poteva apparire persino giusto godere di un benessere che non si era guadagnato.
Ora non si può più, volenti o nolenti è arrivata krisis e attende da noi una risposta. Se vogliamo superare l'esame ci converrà abbandonare il prendere e risolverci al fare.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 21 del 23 luglio 2011, p. 5

La lezione di Russi


Nel 2004, accomiatandosi dal servizio decennale di Rettore dell'Università di Teramo, Luciano Russi volle porgere ad amici, colleghi, collaboratori ed allievi un omaggio affettuoso con le poesie, le musiche e le canzoni contenute in una piccola pubblicazione intitolata Le arti del congedo. Un segno di consapevolezza che finanche il distacco va compiuto con arte, come un compimento nella bellezza che è anche consolazione.
Nessun conforto di questo genere ci ha accompagnato due anni fa, quando una malattia affrontata a schiena dritta ha posto un termine alla giornata terrena di questo grande uomo.
Luciano Russi è stato una personalità poliedrica spinta da una schietta curiosità sui moventi ideologici e storici alla base dello svolgimento della vita sociale e sorretta da una entusiasmante forza di volontà, felicemente contagiosa, che lo sollecitava a misurarsi sempre con nuovi impegni ed iniziative.
Dopo essere stato a lezione dei più grandi maestri di Storia delle dottrine politiche, da Rodolfo de Mattei ad Anna Maria Battista passando per il magistero di Augusto Del Noce, Russi ha esplorato con libertà e coraggio questa disciplina alla ricerca dei fondamenti del rapporto politico, non solo sul piano delle idee, ma anche su quello delle forme mentali, delle rappresentazioni emotive e culturali, dell'organizzazione istituzionale e dei fenomeni di massa.
Costantemente attento al dato filologico, lo studioso ha scrutato nelle pieghe di autori apparentemente minori che gli è riuscito di far brillare come testimoni della temperie del loro tempo. Tra questi bisogna ricordare soprattutto Carlo Pisacane, il patriota socialista che grazie alla rilettura attenta di Russi è divenuto un riferimento fondamentale per la capacità di fondere la questione nazionale a quella sociale, in un esito sostanzialmente contraddittorio e come tale emblematico dei tanti problemi della costruzione della nuova nazione. Non a caso il volume su Piscane fu seguito a distanza di un paio d'anni dal libro forse più celebre Nascita di una Nazione. Ideologie politiche per l'Italia (1815-1861) un'opera anticipatrice di un tema quanto mai attuale, la fragilità dell'indentità italiana. Una ricerca svolta sulle origini del Risorgimento nazionale, applicando la lezione di Machiavelli del ridurre le cose ai loro principi che è ricorrente nell'opera di Russi. Negli anni si succedono molti altri saggi come quelli su Marsilio da Padova e la sovranità popolare, su Giovanni Botero, su Rousseau e il movimento giacobino, sul pensiero politico di Robespierre, su Tocqueville, sui modelli federalisti nell'Italia moderna, sull'influenza di Dante in Augusto Del Noce.
L'impegno di governo alla guida dell'ateneo teramano ha rivelato le qualità strategiche e relazionali dell'uomo e il suo coraggio nel portare avanti sfide all'apparenza impraticabili per consolidare l'autonomia della nuova università e inserirla a pieno titolo nel panorama accademico nazionale. Una missione condotta con passione, evitando sempre la tentazione del municipalismo, cui contrappose l'impulso dato al Coordinamento regionale delle università abruzzesi, uno strumento prezioso per elevare la qualità del sistema formativo e della ricerca scientifica nella nostra regione.
Sempre sul piano della passione non può restare sotto silenzio quella provata da Russi per lo sport e per il calcio in particolare (ricordiamo tutti la stagione gloriosa del Castel di Sangro, di cui fu presidente e a cui dedicò un saggio Lilliput è salvo) che seppe studiare come fenomeno culturale di massa e come elemento coesivo della vita nella comunità e a cui ha dedicato una tra le riviste più interessanti del panorama nazionale “Lancillotto e Nausica”. Forse non casualmente l'ultimo suo libro è stato L'agonista. Gabriele D'Annunzio e lo sport, nel quale affronta, in una sorta di corpo a corpo, la dimensione del competere, anche sul piano sportivo, nel grande Abruzzese.
L'aspirazione alla grandezza non è mancata a Luciano Russi, dimostrando in questo l'originalità di un figlio d'Abruzzo che non ha intrapreso la via della fuga da queste contrade per realizzare i suoi sogni, cercando ostinatamente piuttosto di realizzare qualcosa di grande anche qui.
Con questa consapevolezza la Fondazione Europa Prossima, con l'aiuto di alcuni allievi del professore, organizza per giovedì 16 giugno alle 17,30, presso la Sala consiliare della Provincia di Pescara,  un ricordo con l'intervento di personalità nazionali come Lorenzo Ornaghi, Rettore dell'Università Cattolica, Francesco De Sanctis, Rettore del Suor Orsola Benincasa, e Paolo Gambescia, già direttore del Messaggero. Emblematico il titolo: Luciano Russi intellettuale in Abruzzo. Riflessione politica e discorso pubblico per un paese difficile.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 15 dell'11 giugno 2011, p. 27

«Lo farò volentieri». Vivere da frati nella tendopoli di Piazza d'Armi, fratelli tra i fratelli.

fra Orazio Renzetti O.F.M. Capp.

Una cappella in una tenda, su un altarino una povera immagine lignea della Sacra Famiglia, a fianco un mattone scheggiato e incrostato di cemento, quello che resta di una casa che non c'è più, sopra c'è scritto “Va' e ripara la mia casa”.
Possiamo partire da questa immagine per raccontare l'esperienza vissuta dai Frati Minori Cappuccini nella grande tendopoli di Piazza d'Armi nei giorni più duri del dopo terremoto dell'Aquila.
In quella città i frati sono di casa da sempre, nella notte del 6 aprile 2009 il terremoto distrusse il loro convento di Santa Chiara, le rovine fanno impressione ancora oggi.
Il giorno stesso due frati vanno a Spoleto a chiedere aiuto ai confratelli di quella comunità, nella quale si trovano anche i postnovizi che vivono la loro formazione religiosa.
Non si perde tempo, S. Francesco sarebbe corso subito in soccorso dei fratelli terremotati. Questo pensano i cappuccini che si rivolgono all'Arcivescovo dell'Aquila Mons. Molinari che affida loro il campo di Piazza d'Armi. Il 7 aprile viene individuata un'area dove erigere una cappellina e il 9 sette frati sono lì per iniziare il loro servizio tra le persone che hanno perso tutto tra le macerie. Questa piccola comunità francescana è guidata da fra Orazio Renzetti, pescarese di origine, un passato con gli scarpini da arbitro di calcio ai piedi, ora sempre calzati da sandali.


Fra Orazio, di fronte a una sciagura così grave, che si è rinnovata con tanta violenza distruttiva ora in Giappone, non è naturale domandarsi dove sia Dio?
Ti rispondo con un ricordo. Il 9 aprile era Giovedì Santo. Aperta la cappellina in una tenda di Piazza d'Armi, me ne sono andato a Coppito per pregare sulle bare delle vittime dei crolli. Lungo la strada mi ha colpito un'immagine. Presso una rotatoria c'era una croce, di quelle messe a ricordo di una missione religiosa. Sotto la croce era finito, chissà come, un cartello con scritto “Affittasi”. Certamente l'annuncio non riguardava quella croce, di certo si trattava di qualche locale che magari non c'era più. In quel momento ho pensato:  «La croce di Cristo appartiene solo a Lui, non la vende a nessuno». Capii che a noi viene data solo per qualche tempo, come in affitto. Alcune volte ci cade addosso pesantemente come è successo a L'Aquila, ma Gesù ne resta il padrone e ci aiuta a portarla. Con i miei confratelli abbiamo compreso che il compito che ci attendeva a Piazza d'Armi era farci carico di questa missione di Gesù: aiutare a far risorgere dalle macerie spirituali coloro che erano caduti sotto la croce. Non abbiamo fatto altro che metterci a disposizione di questo progetto di Dio. Per questo rispondo alla tua domanda: Dio è in tutto questo. 


Come avete svolto questa missione nella tendopoli?
Alla tendopoli c'era bisogno di tutto. Soprattutto si sentiva il bisogno di ricevere conforto, rassicurazione, speranza. Noi ci siamo messi in ascolto delle anime, abbiamo portato il messaggio di Cristo, abbiamo prestato il nostro aiuto in quello che ci veniva richiesto, anche nelle cose più semplici, come il portare medicinali, viveri e  giocattoli nei paesi colpiti dal sisma. Abbiamo fatto l'esperienza del servizio nel campo, sperimentando una profonda comunione con tutti gli altri volontari di tante associazioni religiose e caritative presenti a L'Aquila; tra queste voglio ricordare l'Unitalsi. Abbiamo toccato con mano nei fratelli la forza del sollievo cristiano. È stata un'esperienza indimenticabile, credo soprattutto per i giovani frati in formazione che hanno vissuto con noi e con i confratelli di Santa Chiara alloggiati nei vagoni ferroviari un momento forte nella realizzazione del nostro carisma francescano.


Che ha significato vivere da francescani questa esperienza?
Abbiamo avuto modo di meditare l'episodio di San Francesco di fronte al Crocifisso di San Damiano. Alla preghiera fervente del Santo, «Signore cosa vuoi che io faccia?», il Signore rispose: «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va' dunque e restauramela». Le fonti ci raccontano che Francesco rispose:
«Lo farò volentieri, Signore» (Fonti Francescane 1411).
Noi a L'Aquila siamo riusciti a vivere davvero come frati, fratelli tra fratelli, accomunati tutti da un unico amore: l'altro, perché abbiamo condiviso molto del tutto: preghiera al mattino, servizio durante il giorno, santa Messa e momenti serali di preghiera.
La sintesi finale del nostro stare insieme è venuta fuori dalla bocca di tutti, sia di chi è andato per servire, sia di chi è stato servito: grazie. In questo modo le parole di Francesco si  sono profondamente realizzate in noi: «Lo farò volentieri, Signore». Pace e bene a tutti.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 6 del 2 aprile 2011, pagina  8

L'onda lunga del 6 aprile


Le dimissioni di Massimo Cialente, sindaco dell'Aquila, conferiscono lo stigma della profezia al J'Accuse che Rita Centofanti ha pubblicato il 5 marzo su La Domenica d'Abruzzo.
Miopia, assenza di strategia, particolarismo, beghismo, inadeguatezza alla straordinarietà del presente in una città minata da un'accidiosa decadenza e tramortita dalla gran botta del terremoto sono i mali della classe dirigente cittadina (per non dire regionale e nazionale) che la Centofanti ha messo in luce e a cui Massimo Cialente ha saputo dire basta.
Chapeau. Nella patria del tirare a campare nessuno rinuncia a un incarico, semmai se ne fa promettere un altro. Non rinuncia nemmeno chi viene buttato di sella dall'elettorato, che pure dovrebbe essere il giudice ultimo in questa materia: un istante dopo l'amministratore bocciato rimedia un altro scranno, sempre in attesa del successivo. Figuriamoci.
La generazione che fece il suo début occupando scuole e università in vista della rivoluzione (obiettivo rinviato, distruggere l'istruzione parve sufficiente), seguita il combat per occupare il potere. Come fine della lotta, mica come mezzo.
Sembra che anche a sinistra sia stata dimenticata la celebre lezione che Togliatti diede a Pajetta, quando questi gli telefonò festante per annunciare la presa della Prefettura di Milano nel 1947. «Bravi, avete occupato la prefettura e ora che ci fate?», fu la risposta.
Cambiare il mondo era l'obiettivo indicato da Marx ai suoi, ora ci si contenta di descriverlo, o meglio di narrarlo, come oggi usa dire.
Chi voglia governare L'Aquila ha il dovere di chiarire quale potrebbe o dovrebbe essere il futuro di questa città, che non può dipendere dalle partite di spesa del Ministero del Tesoro o da una cultura sovvenzionata dalle sole casse pubbliche.
Su questo fronte la politica non ha dato mai risposte, salvo lo spalancare la bocca come un forno solo quando si paventava il trasferimento di un ufficio o di uno sportello da una città a un'altra.
Eppure non sono mancati i suggerimenti esterni. Ad esempio Enrico Letta, vice segretario del Partito Democratico, propose nel 2009 di dare futuro a L'Aquila mettendola al servizio del Paese. In che modo? Rendendola sede di due poli d'eccellenza nazionali: uno delle telecomunicazioni, l'altro dell'industria farmaceutica, prevedendo norme in grado di incentivare le imprese ad investire sul territorio aquilano. In questo modo si sarebbero rafforzate le industrie storicamente esistenti nella città e se ne sarebbero attratte di nuove, oltre a dare una risposta nazionale al problema dei tagli alla ricerca, in particolare nel campo farmaceutico.
Una proposta caduta nel dimenticatoio. Non solo per opera di chi al governo nazionale avrebbe potuto raccoglierla, ma anche di chi sul territorio era impegnato altrimenti: a consolidare la sua forza elettorale, a distribuire favori a cittadini giustamente allo stremo, a creare grane a un sindaco che alla fine ha saputo far scendere il sipario. Nella speranza che non torni a sollevarsi.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 3 del 12 marzo 2011

domenica 23 ottobre 2011

Il primato della letteratura dal Duecento al Barocco e le ragioni dello scadimento della scuola. Un grande Barberi Squarotti



Nello Ajello ci ha regalato ieri un'intervista molto interessante al professor Giorgio Barberi Squarotti (La Repubblica, 22/10/11, ppp. 56-57), forse il più illustre tra gli italianisti viventi.

Ripubblico in questa nota l'intervista per tutti quelli che l'avessero smarrita (io stesso l'ho letta per puro caso, non compro il quotidiano che compilano a Largo Fochetti).

Voglio sottolineare l'importanza di due punti: la rilevanza dalla letturatura italiana dal Duecento al Seicento che oggi si tende a comprimere nei programmi a vantaggio della letteratura successiva (modesta e provinciale), e le ragioni dell'impoverimento culturale dei ragazzi.

Vi lascio alla lettura, seguono alcune mie brevi riflessioni.



UNA VITA DA MANUALE


Le donne al potere è il titolo di un libro di Giorgio Bàrberi Squarotti, classe 1929, uno dei maggiori italianisti contemporanei, docente emerito di letteratura all' ateneo di Torino, autore di un diffusissimo manuale scolastico. L' opera di cui parlavo, appena uscita dall' editore Manni, è una cavalcata all' inseguimento dei personaggi femminili che nutrono le pagine di Ludovico Ariosto e di Giovanni Boccaccio. Il lettore viene accolto in un' isola dove il poeta dell' Orlando furioso ambienta una storia di "femmine omicide" intente a costruire una singolare Repubblica vietata agli uomini: dopo cruente decimazioni, essi sono ammessi unicamente a svolgere mansioni erotiche al servizio del sesso "dominante" (e, sotto questo aspetto, insaziabile). Eroine ugualmente scaltre e vogliose dominano i capitoli che il libro riservaa ciò che potremmo chiamare il "femminismo" boccaccesco. Due grandi della nostra letteratura vengono dunque "raccontati" con un piglio moderno che ne coglie in pieno le ironie e la deliberata sventatezza. Da qui parte il mio colloquio con Bàrberi Squarotti, del quale sono amico da molti anni. Gli ho chiesto che cosa rappresenta per lui quest' ultimo suo volume sulle donne. È uno scherzo, una vacanza, un' evasione? «È il tentativo di guardare alle novelle di Boccaccio e ad episodi dell' Orlando furioso in una prospettiva diversa dal consueto. Specie ora che sono esente da obblighi accademici mi sembra di poter comunicare con libertà ciò che penso e sento. E lo faccio con tanta maggior passione in quanto oggi la critica tende ad occuparsi di letteratura a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, concentrandosi per di più su autori molto modesti. Ciò che viene disertato è la letteratura italiana dei secoli che vanno dal Duecento al Seicento. Dopo di allora, certo, ci sono stati grandi scrittori, ma non più una tradizione rigorosa e continuativa». Tu hai insegnato a Torino per 37 anni, e sei in pensione dal 2003. Mi torna in mente una frase, presa in prestito da Franco Fortini, che spesso ti ho sentito ripetere: la letteratura è un' attività secondaria rispetto al normale ritmo della vita, al mangiare, al dormire, e così via. E tuttavia senza la letteratura, non capiremmo noi stessi e il mondo. Bàrberi Squarotti, sei ancora dello stesso parere? «Ne resto convinto. Non a caso ho sempre insegnato ai miei allievi la necessità della lettura e il piacere della bellezza e della verità. Trovo quel piacere tanto più valido in un momento come l' attuale, tetro e rovinoso, e non solo per la letteratura». Ancora prima che per i numerosi saggi dedicati a grandi nomi delle nostre lettere, tu sei noto come autore di quella Storia e antologia della letteratura italiana (Atlas editore), edita e riedita negli anni: un testo sul quale hanno studiato generazioni di adolescenti. Il "Bàrberi" non è la sola opera del genere, largamente adottata nelle scuole. Basti pensare - esempio illustre - ai tre volumi di storia medievale, moderna e contemporanea, di Rosario Villari, editi a più riprese nella "collezione scolastica" di Laterza. Tornando a te, mi piacerebbe sapere se ti riconosci ancora in quella funzione di educatore "di massa". Che impressione ti farebbe, oggi, mettere piede in un liceo? «Ci vado molto volentieri, quando mi invitano. Amo discutere con i giovani». Ma come li vedi, i licealisti del Terzo Millennio? «Le loro capacità sono esattamente uguali a quelle dei loro coetanei di trenta o quarant' anni fa. Ciò che s' è impoverito sono le basi. L' idea che si vada a scuola soltanto per stare insieme agli altri è nefasta. È svanito il senso che si vada lì per comprendere la storia e i sentimenti attraverso la letteratura, la filosofia, le arti. La nostra era una buona scuola. È andata sempre peggiorando. Mi pare che adesso si sia dispersa». Quando ha cominciato a cambiare in peggio? «È stata la banalizzazione di certe idee del Sessantotto a segnare la svolta verso la rovina. Tutto deve essere facile, piacevole, divertente: ecco lo slogan. Intanto, i figli dei ricchi frequentano le scuole private e imparano. Gli altri vengono tagliati fuori. Io lo so bene, perché da ragazzo appartenevo alla seconda categoria, agli "altri". Studiavamo per emanciparci dalla sfavorevole situazione di partenza. Chi può farlo, oggi?». Oltre che critico di poesia, tu sei poeta in proprio. Ricordo il titolo d' un tuo saggio, a suo modo polemico, Addio alla poesia del cuore. Che cos' è questa "poesia del cuore"? E che cosa significa dirle addio? «Quel mio lavoro riguardava la letteratura del Sette-Ottocento e mostrava i limiti di una poesia di marca patetica, che è di moda ancora oggi». Insomma, esprimevi antipatia o dileggio per chi scriveva versi con il cuore in mano. «Appunto. È sempre qualcosa di inferiore dal punto di vista espressivo. Non a caso Leopardi, che è il contrario di tutto questo- fa cioè una poesia filosofica, di contenuto, non sentimentale o emotiva- diceva: cuore mio taci, non parlare più». Vuoi citarmi un esempio di "poesia del cuore", in Italia, negli ultimi decenni? «Alda Merini. Il suo mi sembra il caso più tipico». Hai studiato a fondo la narrativa italiana del secolo scorso. Se dovessi indicare due nomi, solo due, che consideri fondamentali per il nostro Novecento, chi sceglieresti? «Carlo Emilio Gadda e Stefano D' Arrigo. Hanno reinventato il romanzo. Non il romanzo di moda, di quelli che vengono premiati e dopo un mese è come se non fossero mai esistiti. Quei due parlano invece dell' amore, della morte, della guerra, insistono sui principali aspetti dell' esistenza. Sulla linea, in fondo, inaugurata dall' Iliade e dall' Odissea. Già allora, credimi, c' era tutto. Dopo, si è trattato di variazioni, anche se spesso fondamentali». È quasi un luogo comune accennare al tuo "antistoricismo". Si ricorda un testo che pubblicasti nel 1980, Il romanzo contro la storia. Trattava dei Promessi sposi. In un altro volume, che risale al 1990, ancora sul Manzoni, parlavi delle "delusioni della letteratura". Che intendevi dire? «Sostenevo che la storia è sempre contraddittoria. Ci racconta come sono andate le cose, ma dopo qualche decennio si scoprono altri documenti che spingono a interpretare tutto in maniera diversa. La letteratura, invece, si spinge sul significato, sui "perché". Manzoni, osservavo, non raccontavai fatti. Ne carpiva il senso». Ma perché quell' accenno alle "delusioni della letteratura"? «Quando scrive La colonna infame, Manzoni si rende conto che il romanzo può inventare gli eventi, concludendo per esempio che, alla fine, nonostante tutto, i protagonisti (così accade ai suoi) si sposino. Nella storia il lieto fine non è contemplato. E perciò, secondo me, Manzoni non ha più scritto romanzi. L' ho chiamata la sua delusione». Tu sei il direttore del più monumentale dizionario della lingua italiana, quello in 23 volumi iniziato nel 1961 da Salvatore Battaglia ed edito dalla Utet. Eppure la tua immagine pubblica non è quella di un filologo compassato. A detta dei critici, le tue poesie sono percorse da inquietudini esistenziali, sospese fra allegoria e ironia. Chissà se ti riconosci in questo ritratto. «Sì, mi ci riconosco. L' ironia che mi attribuiscono può dipendere dal fatto che tutto ciò che viviamo e sentiamo è precario. L' importante è parlarne senza tristezza. Anzi, con allegria». - NELLO AJELLO



Ha mille ragioni il professor Barberi Squarotti, ci offre spicchi della sapienza, con la libertà di chi ormai può dire quello che pensa e sente, senza il timore di rendersi invisi ai mastini ringhiosi che presidiano la vita pubblica nei settori della formazione e della cultura.

Straordinario il primo richiamo: occorre tornare a studiare la letteratura italiana che è stata fondamento della letteratura europa, ovvero la letteratura che dallo Stil Novo, Dante, Petrarca, Boccaccio, il Rinascimento arriva al Barocco. Dopo quelle stagioni la nostra letteratura diventa marginale, periferica, emula spennata di Francia, Germania, Inghilterra e America per tacer del resto. Eppure oggi nella scuola si dà rilevanza solo a quanto è più modesto nella vertigine da precipizio che deve condurci al Novecento, come se si dovessero omaggiare chissà quali vette del Parnaso. Si mortificano Ariosto e Tasso perché si possano leggere Vittorini e Calvino.Addirittura si è deciso di anticipare al secondo anno la letteratura dalle origini allo stil novo sempre per il medesimo scopo: occorre leggere la letteratura novecentesca, esemplari modelli di dipendenza francese e americana.

Sul secondo richiamo, ovvero sul perché sia così peggiorata la scuola (ed era una buona scuola in origine) mi pare che non si debba aggiungere nulla. Tutto quello che osserva è dolorosamente vero. A partire dal punto centrale: non sono i ragazzi ad essere cambiati, siamo noi che non li abbiamo formati più come si sarebbe dovuto e potuto. Una consapevolezza che ho maturato da tempo; sono contento di essere confortato da un parere tanto illustre.

Bella la stroncatura sulla poesia del cuore, traboccante dagli scaffali letterari.

Una perla è la riflessione sul significato della letteratura per Manzoni.

Un'intervista da meditare lungamente, una lettura indispensabile per chi insegni letteratura italiana


venerdì 21 ottobre 2011

Il tempo nuovo dell'impegno dei cattolici per il bene comune

Benedetto XVI, parlando domenica 9 ottobre alla folla calabrese ospitata in una vasta area industriale dismessa di Lamezia Terme, ha auspicato che scaturisca una nuova generazione di uomini e di donne capaci di promuovere non tanto interessi di parte ma il bene comune.

Nelle parole del Papa possiamo trovare i nodi di quella questione cattolica che sembra agitare questi momenti convulsi della fine della cosiddetta seconda Repubblica.

Marginali, quando non avversati e combattuti, nel processo risorgimentale e negli anni dei governi liberali postunitari, i cattolici sono stati tra i protagonisti principali della scena politica italiana nel Novecento, in particolare con l'avvento della repubblica. L'esperienza storica della Democrazia Cristiana ha guidato lo sviluppo del Paese in un progresso sociale ed economico senza precedenti, un merito ora riconosciuto anche dai detrattori più implacabili.

Quando quel partito politico esaurì la sua funzione, sia per il crollo del muro di Berlino che fece venir meno il bisogno di una diga anticomunista, sia per l'esplodere di tangentopoli che rivelò come il malaffare avesse sostituito la testimonianza sui valori nei cuori di molti dirigenti politici, parve essere cessata la stessa stagione dell'impegno unitario dei cattolici in politica.

Malgrado il generoso e incompreso tentativo di Mino Martinazzoli di rifondare l'impegno dei cattolici democratici, la diaspora fu inarrestabile: nei primi anni Novanta sembrava che il buono e il bello risiedessero sono nell'alternanza di governo tra forze politiche contrapposte. In questo modo i cattolici rinunciarono ad animare un partito laico che mirasse al bene comune senza calcoli di parte, per dividersi tra le trincee contrapposte, combattendo per interessi sempre più ristretti e particolari.

A venti anni di distanza appare sempre più evidente l'esito fallimentare di questa scelta. A destra si riproponeva un'artificiosa barriera anticomunista, basata non più sui valori e sulla capacità di offrire al Paese un avvenire di benessere, ma sull'aritmetica bottegaia in grado di sommare liberalismo arruffone, secessionismo da parata e nostalgie affette da camaleontismo tattico e contraddittorio. A sinistra l'abbraccio via via più stretto con i metamorfici discendenti del comunismo generava una palude di veti contrapposti tra posizioni massimaliste e riformiste, senza riuscire a dare vita a una proposta di governo forte e autorevole del Paese, se non nella prima stagione di Romano Prodi, che però a giudizio di Martinazzoli commise l'errore di porsi come l'abbattitore dello steccato tra guelfi e ghibellini, dimenticando che questo era già riuscito bene a Sturzo, De Gasperi e a Moro.

Non che in tutto questo tempo i cattolici non abbiano influito sulla scena pubblica, ma soprattutto grazie all'episcopato (memorabili Monsignor Camillo Ruini a lungo presidente della CEI e il suo slogan Meglio contestati che ininfluenti) e alla forza dell'associazionismo ecclesiale. Proprio da questo vasto tessuto sociale si intende ripartire oggi per rianimare una politica da cattolici che sia per l'appunto universale negli intenti e nei valori, nella fiducia di poter proporre un progetto utile per il futuro dell'Italia, prima ancora che per questa o per quella barricata, coniugando l'ispirazione evangelica con lo sguardo franco sull'uomo, sulla sua dignità e i suoi bisogni, in modo da promuovere una società giusta e pacifica. Questo il progetto, questa la tensione che si fa sempre più forte nelle comunità ecclesiali per reagire a questi tempi grami. Sembrano mancare solo i capi, ma forse è un bene, se fossero già in campo sarebbero gli stessi che hanno dissipato per incoscienza e opportunismo un'eredità preziosa. Quod Deus avertat.

Brutta vicenda al Massimo

Cade un pezzo di mattone al Circus e si corre ai ripari perché resta senza palcoscenico una scuola di danza. La città non dispone di altri spazi idonei, ovvero sì, c'è il d'Annunzio, ma lì giustamente si svolge il Festival Dannunziano. Ci mancherebbe.

C'è anche il Massimo, facciamo i saggi al Massimo. Ma al Massimo c'è il Flaiano Film Festival. E che si chiama Flaiano il Massimo? Si arrangino, ci cedano le sale, abbiamo diritto alla Grand soirée.

Ci sarebbe il Michetti, il più antico teatro di Pescara salvato da D'Alfonso ... no, non c'entrano le nonne.

E la politica che fa? La politica si commuove, si cava il fazzoletto di tasca, taccia di insensibilità, di disumanità chi intende portare avanti il cartellone di un Festival giunto alla trentottesima edizione, e che rappresenta, col Festival del Jazz, la manifestazione culturale pescarese più celebre nel mondo.

Qui è l'indecenza, è l'inadeguatezza delle istituzioni a rendere brutta una vicenda tutto sommato ordinaria.

Distinguiamo i piani. Benemerita è la Fondazione Pescarabruzzo che negli ultimi anni col suo presidente, Nicola Mattoscio, ha salvato il Circus e il Massimo, che altrimenti avrebbero chiuso i battenti per sempre e la disputa delle sale non sarebbe neppure cominciata, visto che non ci sarebbero state per nessuno.

E gli enti locali? Da qualche anno non creano nuovi spazi e non aiutano a gestire quelli che ci sono. Anzi, non appena si vede una crepa ci inzuppano il pane. Per quale motivo? Il solito. Ricerca di consenso. Centinaia di ballerine rimaste senza soirée sono centinaia di famiglie, centinaia di elettori. Possiamo mostrarci indifferenti? Non possiamo. E allora va bene attaccare chi, malgrado tutto, porta avanti un impegno meritorio come fa Edoardo Tiboni con la squadra dei suoi collaboratori.

Una pagina davvero brutta. Perché la cultura in una città vuol dire soprattutto condivisione di idee, di valori, di riferimenti; il che significa anche darsi delle priorità, riconoscere quanto prevale sull'altro, non perché lo annulli, ma perché ha maggiore rilievo e prestigio.

Un festival internazionale del cinema non può farsi più in là perché una scuola cittadina di danza si è ritrovata senza la sua sala per il saggio di fine anno. Che lo pretendano le bambine si capisce, le famiglie pure, che gli vadano dietro gli assessori offende: non Tiboni, Pescara.


2
luglio
2011

http://www.quotidianodabruzzo.it/ricerca/spaziorandom/7774/brutta-vicenda-al-massimo.html



giovedì 3 febbraio 2011

La Marca d'Egitto

Prima che a qualcuno venga in mente di definirci «Marca orientale», ricordiamo che con questo nome il Terzo Reich chiamò l’Austria dopo l’Anschluss , riesumando l’antica denominazione carolingia di quel paese.

Marca indica un territorio presidiato militarmente e utilizzato come bastione contro i nemici esterni.

Per questa ragione riesce difficile capire la ragione per cui il gruppo consiliare del PD alla Regione abbia intitolato “la Marca Adriatica” un convegno a illustrazione del quale compare sul manifesto il disegno delle regioni costiere del nostro mare.

Se si vuole lavorare seriamente al progetto di costruire relazioni tra le comunità adriatiche sarebbe il caso di proporre un nome diverso da quello che evoca mura, fossati, ponti levatoi, cavalli di frisia e casematte. Un nome da Vallo Atlantico, tanto per capirci.

Diverso era il senso della proposta di Luciano D’Alfonso e di Giovanni Di Giandomenico che hanno richiamato il precedente storico della marca adriatica di Federico II per stimolare la classe dirigente di tre regioni a riprendere in mano le analisi della Fondazione Agnelli che suggerivano la creazione di una macroregione adriatica. Una necessità ineludibile in vista del nuovo assetto federale che si va strutturando.

Torniamo a un punto dolente. Chi siede oggi nelle istituzioni democratiche spesso non solo non propone, ma rischia di fraintendere quello che gli viene proposto. Le sole schede elettorali selezionano la classe dirigente?

www.quotidianodabruzzo.it, 3 febbraio 2010, rubrica "A fin di bene".

mercoledì 2 febbraio 2011

In Abruzzo la classe dirigente pesta i piedi nel pantano

In Italia la classe dirigente è scomparsa. Così si esprimeva addolorato qualche tempo fa sulla Stampa il professore Gian Enrico Rusconi.
Ma da queste parti c’è mai stata?
L’Abruzzo è stato governato da Roma, in modo più o meno accorto, negli anni miracolosi della prima repubblica, quando la regione più povera del Paese, passo dopo passo, si è ritrovata a non aver bisogno dei sussidi europei, luminosa eccezione in un meridione secolarmente incapace di camminare sulle sue gambe.
In loco agivano i referenti che presidiavano il territorio, organizzavano il consenso, applicavano le direttive romane. Non sono mancate grandi individualità, ma isolate in un sistema abituato a rimettersi al volere del leader che occupava uno scranno al Governo.
Sono trascorsi quasi venti anni dalla fine di quel modo di gestire le pubbliche e secrete cose di queste contrade, ma non s’è vista la nascita di uno nuovo. Si è proseguito come prima a occuparsi di gestione spicciola del potere locale, come se a Roma ci fosse ancora qualcuno a disegnare la strategia per lo sviluppo.
Nel perdurare di questa vera e propria rimozione di consapevolezza politica è accaduto di tutto: è esplosa la spesa sanitaria a fronte di un servizio sempre più carente al cittadino, galoppano le tasse, è tornata a fiorire la pianta malata del campanilismo, l’incendio della crisi consuma un’azienda dopo l’altra, la produttività nelle fabbriche tocca i suoi punti più bassi, l’assetto delle infrastrutture è rimasto fermo al 1992.
Ci troviamo in un pantano da cui nessuno mostra di sapere come uscire, soprattutto perché lo sforzo maggiore pare quello di conquistare più spazio possibile senza darsi pena se il terreno sia infradiciato o asciutto. Tutto sommato, anzi, gli schizzi di fango fanno più scena quando si sollevano.
Nessuno indica una ricetta per il presente, si evoca a tinte naïf un futuro in cui riprenderà lo sviluppo che si spera radioso, ma senza più i toni trionfali di un tempo. Lo si dice quasi col tono di chi pensa in cuor suo “Adda passa’ ’a nuttata”.
In “tanta lungimiranza” s’apparecchia a Roma un federalismo fiscale che non ridistribuisce risorse ma che le taglia, costringendo regioni e comuni ad aumentare le tasse e a far rientrare la spesa.
Cosa accadrà da queste parti a tassazione altissima e a spesa impazzita pare che non riguardi nessuno.
In compenso abbondano le rotatorie, metafora perfetta del dirigere a zonzo. Le hanno piazzate ovunque. Nella zona industriale di Chieti non permettono il passaggio dei trasporti eccezionali diretti alle aziende. Non ci passano. Ma non se ne diano pensiero. Entro qualche decennio i trasporti cambieranno radicalmente. Nel frattempo si arrangino. Pestare i piedi nel pantano assorbe tutto il presente.
Marco Presutti
31 gennaio 2011

http://www.quotidianodabruzzo.it/opinioni/lodicoio/506/cercasi-classe-dirigente.html

martedì 25 gennaio 2011

Scopriamo la P&G ora che se ne va

A guardare la realtà, si scopre di essere sprovveduti in tanti modi.

Uno dei più sicuri è rendersi conto che vicino a noi c’erano cose meravigliose ed eccellenti solo quando queste non ci sono più. O quando sono lì lì per venire meno.

Questa scoperta accade tanto di frequente alle persone che non varrebbe nemmeno la pena di starne a parlare. Tanto sappiamo come si fa: l’importante è far finta di nulla, come il re nudo in mezzo alla folla. Se lo sappiamo solo noi non è un gran male essere sprovveduti.

Diverso è il caso di una comunità. Quando se ne rende conto una comunità, i conti con se stessa deve pur farli.

Pescara questa scoperta l’ha fatta in questi giorni.

Sta chiudendo il centro ricerche della Procter & Gamble. Non a Cincinnati ma a casa nostra, a Sambuceto. Un luogo di eccellenza dove lavorano 130 ricercatori che sviluppano innovazioni che entro qualche anno diventano oggetti di uso comune. Tutto questo nel 2012 non ci sarà più. Fine della storia.

Una storia nata con la Fater, il più grande insediamento industriale dell’area di Chieti - Pescara, una realtà da 760 milioni di fatturato con un migliaio di dipendenti.

Faricerca, questo era il nome del centro prima che arrivasse P&G (dal 1992 in joint venture con il gruppo Angelini nel controllo della Fater). La freccia migliore nell’arco della grande azienda pescarese, che grazie alle innovazioni e ai brevetti ideati in casa ha potuto sbaragliare ogni concorrenza interna ed esterna. Anche per questo motivo gli americani preferirono entrare in Fater piuttosto che continuare a perdere quote di mercato.

La Fater fu divisa al 50% ma Faricerca passò interamente a P&G che in Italia ha un altro centro di ricerca a Pomezia, oltre a diversi altri in giro per il mondo.

P&G vende i suoi prodotti a due miliardi di persone e si propone di raggiungerne un altro miliardo. Come tutte le realtà planetarie guarda a oriente. Ad occidente si taglia dove si può.

A Newcastle no, lì resta un grande centro di ricerca che fu inaugurato in pompa magna nel lontano 1957 dal Duca di Northumberland. La comunità di Newcastle favorì in ogni modo quello stanziamento e continua a farlo, consapevole dell’importanza di ospitare un hub internazionale nel quale lavorano per la P&G 330 ricercatori da tutto il mondo.

Proprio lì andranno a lavorare l’anno prossimo molti dei ricercatori di Sambuceto. Da noi si chiude, alzi la mano chi se ne era accorto.

Eppure la Fater è la vera fabbrica di casa nostra, eppure senza quel centro di ricerca la stessa Fater rischia di essere più debole. Cosa accadrebbe se P&G tra alcuni anni dovesse decidere di non averne più bisogno?

Viviamo in un’economia di mercato, i manager prendono le decisioni che vogliono e rispondono agli azionisti. Ci mancherebbe.

Ma siamo sicuri che un territorio non possa far nulla per invogliare le aziende a restarci e possibilmente a svilupparsi? A Newcastle ci sono riusciti. Noi no, anzi non sapevamo nemmeno che qui operava un vero centro di ricerche.

A questo punto è il caso di farci un esame di coscienza. Riusciremo a non tirare le cuoia continuando ad essere così sprovveduti?


pubblicato su: http://www.quotidianodabruzzo.it/93/scopriamo-la-pg-ora-che-se-ne-va.html

mercoledì 19 gennaio 2011

Punti fermi di un cattolico in politica

1) La politica di Berlusconi non ci piace. In caso contrario l’avremmo scelta nel 1995 senza spaccare un partito che otteneva il voto di un italiano su dieci.

2) Se quella politica ci fosse andata bene non ci saremmo risolti a lavorare all’alleanza con quella sinistra che con successo avevamo combattuto politicamente per cinquanta anni.

3) Nell’alleanza e poi nella fusione con quella sinistra abbiamo fatto molte cose ma nessuna epocale, eccezione fatta per l’euro, un successo per le finanze forse meno per i cittadini.

4) Negli anni zero del nuovo millennio abbiamo coltivato il sogno di creare una forza politica nuova che unisse tutti i riformisti per dare vita a un partito in grado di affrontare le sfide di questa epoca.

5) Il tentativo è fallito sul nascere, ci siamo ritrovati nella versione scafo a fibra di carbonio del solito carrozzone comunista che dal ’21 ad oggi appassiona un italiano su tre e si fa odiare dai rimanenti due.

6) I meglio fuochisti di questo carrozzone oggi si fregano le mani perché Berlusconi pare star lì lì per cadere per una storia indecente di sottane, portata alla luce con la consueta solerzia dai compagni in toga di Milano.

7) I meglio fuochisti trascurano di dire che politicamente Berlusconi non lo hanno battuto mai, salvo quando nel 1996 riuscirono a portargli via il Bossi.

8) Accade così che l’impolitico Berlusconi abbia sempre vinto sul tavolo della politica, mentre i politicissimi frattocchiari sul ponte di comando covano la speranzella di togliere di mezzo il rivale politico mostrando la pochezza della sua dignità privata.

9) In pratica senza Berlusconi non esiste una linea politica vincente in questo paese.

10) Berlusconi, tuttavia, non ci piace (vd. 1). A questo punto il quesito è leninista: Che fare?

p.s.

S’aggiunge che ormai per noi si applica ai meglio fuochisti del carrozzone l’enunciazione iniziale dei punti 1 e 10. Con maggiore convinzione. Per incapacità, trasformismo ed impotenza (politica, almeno quella di certo).