lunedì 18 ottobre 2010

Schiavi degli interessi di chi sta in cattedra. Benvenuti nell'Università italiana. Considerazioni caffettiere su Eco

Repubblica ha stampato nella sua edizione del 15 ottobre un'importante anticipazione di un articolo di Umberto Eco in pubblicazione sul numero 3 della rivista Alfabeta2.

In questa nota ripubblico il testo del professore Eco, con l'aggiunta di qualche mia personalissima considerazione sulle cause delle iatture magnificamente descritte dallo studioso. Cause che avviano un dibattito che vorrei più generale: la questione, a mio avviso centrale, della prostituzione italica del servizio pubblico all'interesse esclusivo di chi in esso lavora (traendone una mercede) a detrimento di quanto resta del popolo italiano che tali pessimi servigi paga, in cambio di danni e miserie.

Il Paese dei dottori laureati al parcheggio

di UMBERTO ECO

La classica laurea quadriennale italiana, con una tesi finale che talora (anche se non sempre) poteva tener testa alle tesi di PhD di altre università, era un unicum italiano. Negli altri paesi in genere c'è un primo corso triennale alla fine del quale si prende, come in Francia, una license o come nei paesi anglosassoni un BA, o baccellierato. Poi si può fare quello che in America si chiama master (ma non è esattamente quello che è ora un nostro master) e, per chi ha una vocazione alla ricerca, il PhD alla fine del quale, e solamente alla fine del quale, si viene nominati Dottore (lasciamo da parte i dottorati francesi di vari cicli perché c'è da perderci la testa). Essere Dottore, in America, è così importante, che in certe situazioni formali, per onorare uno studioso, non lo si chiama "Professor" Smith bensì "Doctor" Smith. Il Professor può essere anche un laico assunto a contratto, il Doctor ha conseguito il massimo titolo accademico.Non vi dico i guai quando un nostro laureato andava a proseguire i suoi studi all'estero. La laurea italiana con la sua tesi di dimensioni mostruose valeva un PhD americano? Di solito si diceva di no. Valeva solo un BA? Era un'ingiustizia. Si poteva equipararla a un Master? Era da discutere. Ecco perché non era assurdo che, con la riforma Berlinguer, si tentasse una equiparazione dei titoli e dei periodi di studio.

La riforma era partita inoltre dalla persuasione che in Italia il numero degli studenti iscritti che non si laureavano fosse alto perché la laurea quadriennale, con il fantasma della imponente tesi finale, incoraggiava gli abbandoni o quei fuori corso chiamati "studenti in sonno". Ora si scopre che gli studenti italiani tardano anche a terminare il triennio. È una iattura, di cui andranno meglio analizzate le cause, ma di cui non è responsabile il sistema 3+2. Veniamo alla seconda iattura. Su questo stesso numero di Alfabeta Gigi Roggero mi fa dire (ma onestamente aggiunge "grosso modo") che ci volevano più laureati anche se meno preparati. Non credo di aver mai detto così, avrò detto che ci volevano più laureati anche se con un anno di meno, ed è cosa molto diversa. Infatti quando si discuteva della 3+2 ero convinto (come lo sono ancora) che in tre anni ci si possa preparare molto bene, e meglio di quanto non avvenga in un triennio americano che, per poter ricuperare su una high school disastrosa, di non solito non insegna più di quanto non faccia (o non facesse) un nostro buon liceo (e l'aspetto positivo di un BA non è nella profondità degli insegnamenti, ma nel fatto che i ragazzi vivono in college, con frequenza obbligatoria, con la possibilità di avvicinare i professori quando lo desiderano).

Come in tre anni ci si possa preparare in modo eccellente lo spiego subito, partendo dalla mia personale esperienza di studente di filosofia negli anni cinquanta. All'epoca, per la laurea quadriennale, occorreva dare diciotto esami. I nostri professori (che, detto incidentalmente, erano personaggi della taratura di Abbagnano, Bobbio, Pareyson eccetera) si erano messi tutti d'accordo in modo che alla fine dei quattro anni, tra un esame e l'altro, si riuscisse a portare (oltre ai corsi monografici) quasi tutti i classici della filosofia, da Platone a Heidegger. A seconda del quadriennio in cui capitavi poteva accaderti di saltare, che so, Hegel, ma quando ti eri scozzonato su Aristotele, Spinoza o Kant (tutte e tre le critiche) eri poi in grado di leggere da solo il resto. Di questi diciotto pesantissimi esami, per laurearsi entro il quadriennio (chi andava fuori corso o era studente lavoratore o era incappato nella classica nevrosi da tesi) se ne davano cinque in ciascuno dei primi tre anni, e tre nell'ultimo, per avere tempo da dedicare alla tesi. Nessuno è mai morto di fatica.Ora, se quei quattro anni dovevano formare un esperto in filosofia, c'erano molti esami che con la filosofia non c'entravano, come latino, italiano, o quattro di storia. Visto che all'epoca queste materie si erano già fatte molto bene al liceo, si sarebbero potuti eliminare almeno tre di quegli esami, ed ecco che si sarebbe arrivati a quindici esami di materie filosofiche, liquidabili in tre anni (senza tesi finale), e leggendo ugualmente i classici e non dei riassunti.

Perché non si è fatto così per l'attuale triennio e si è presupposto di avere a che fare con adolescenti sottosviluppati? Perché si è data un'interpretazione restrittiva e fiscale dei "crediti". I crediti sono un modo di quantificare il lavoro svolto dallo studente, in modo che se si sposta all'estero si sappia a quale livello di studio parificarlo. Si è deciso di calcolare i crediti in base alle ore passate a casa a studiare (una stupidaggine, o una finzione) o al numero di pagine da portare per l'esame. Inoltre, per giustificare il lavoro di molti vecchi e giovani docenti, si sono stabiliti tanti moduli con un numero di ore assai limitato. Ed ecco che, in base ai crediti a cui ha diritto per quel modulo, lo studente non deve studiare più di - diciamo - cento pagine, al punto da protestare se il docente gli dà un testo di centoventi pagine. Gli editori si sono riciclati facendo libri di testo tisicuzzi, e così lo studente è stato incoraggiato a leggere poco, in fretta, e ad accumulare crediti (che sono misura soltanto quantitativa) a scapito della qualità del suo apprendimento. Mentre, se proprio ci si voleva attenere all'uso europeo dei crediti, bastava legarli al numero e al risultato degli esami; se qualcuno dà due esami in luogo di uno, e col massimo dei voti, non interessa sapere quanto abbia studiato a casa; o ha studiato più degli altri, o è più sveglio, e gli si diano dunque tutti crediti che si è guadagnato, ma non gli si diminuisca il peso del lavoro, perché deve imparare a faticare.

Ho persino il sospetto che con criteri così severi forse si laureerebbero più ragazzi, perché si troverebbero di fronte a una sfida e non sarebbero incoraggiati a rigirarsi i pollici. Ma se poi non si laureano in tempo si deve anche ritenere che, tranne ovviamente le eccezioni folgoranti, arrivino già sottosviluppati dalla media superiore, come risulta dai test che denunciano ignoranze abissali - e quindi bisognerebbe mettere in discussione anche quanto avviene prima dei diciott'anni.

A rendere inoltre risibile il 3+2 c'è poi la storia grottesca del "dottore". In tutti gli altri paesi si è dottore solo dopo il dottorato di ricerca e dunque dopo almeno otto anni di studio. Con i diplomi precedenti si è solo Mister, Herr o Monsieur. Alcuni di noi avevano sconsigliato di seguire il vecchio andazzo e di definire già dottore chi terminava il biennio della laurea magistrale; ma il legislatore, forse anche sotto la pressione di tutte le mamme e i babbi d'Italia, con il Decreto del 22 ottobre 2004, n.2707 ha infine stabilito: "A coloro che hanno conseguito, in base agli ordinamenti didattici di cui al comma 1, la laurea, la laurea magistrale o specialistica e il dottorato di ricerca, competono, rispettivamente, le qualifiche accademiche di dottore, dottore magistrale e dottore di ricerca".

Spero che il lettore abbia capito: in Italia si diventa dottore tre volte, una volta dopo tre anni, l'altra dopo due e l'altra ancora dopo tre o quattro. A parte i dottorati conferiti dal cameriere o dal posteggiatore. Come faranno all'estero a prendere sul serio i nostri dottori anche se arriveranno con le tasche piene di stupidi crediti?

(15 ottobre 2010)

_________________________________________________________________________________________________________________________

Questo articolo è impeccabile per la chiarezza con cui viene denunciato il fallimento della riforma dell'Università voluta da Berlinguer e licenziata da Zecchino. Ministri di centrosinistra, anzi del nostro glorioso centrosinistra, del primo Ulivo, dei governi Prodi e poi D'Alema e Amato negli anni belli in cui pensavamo di aver intrapreso la via maestra del progresso dei popoli nella pace mondiale clintoniana (ricordate l'ulivo mondiale?).

Ma non buttiamola in politica, anche se vale sempre la pena ricordarle certe cose in un periodo nel quale vediamo orde sanculotte scendere nelle strade e nelle piazze, bloccare l'attività didattica delle università, delle scuole e delle accademie (col sostegno interessato, come si vedrà, della corporazione docente), celebrare funerali dell'università e della scuola pubblica di fronte a progetti di riforma di certo non epocali e certamente meno letali di quelli varati alla fine degli anni novanta i cui effetti Eco ha descritto così magistralmente. Perché meno letali? Perché non incidono sui contenuti e sui modi di erogare l'insegnamento, ma sui soldi e sull'arruolamento del personale docente.

Ora siccome in questa sciagurata nazione quando si parla di cultura in genere si pensa al portafogli può anche accadere che i tagli dei fondi possano essere scambiati con la morte dell'istruzione, metre viceversa riforme come quelle Berlinguer - Zecchino, realmente apocalittiche per l'insegnamento universitario, siano passate in gloria perché hanno consentito il moltiplicarsi di cattedre, di contratti, di strapuntini, insomma di ssoldi (come direbbe un mio amico) e di prospettive rosee di carriera in concorsi locali, mediamente destinati alla promozione di figli, famigli, compagne/i di letto, amici degli amici e compagnia cantando. Può anche accadere? Accade. Per questo l'accademia sibila: "Morte alla Gelmini, abbasso i concorsi nazionali".

Sed de hoc satis.

Torniamo all'articolo di Eco. Cosa ci entusiasma in quanto abbiamo letto?

L'onesta ammissione che abbiamo mandato al macero un modello formativo che funzionava, che magari era difficile da omologare con gli standard esteri, ma che, almeno nell'ambito umanistico, consentiva risultati di gran lunga superiori a quanto accadeva altrove, soprattutto negli States.

Eppure nel volgere tramestoso del secolo breve siamo riusciti a compromettere tutto e a sostituirgli un sistema tra i più inefficaci al mondo.

Quali le cause? Eco vi fa cenno quando parla del modo fiscale e capzioso con cui fu inteso il sistema dei crediti: tante ore studi, tante pagine leggi tanti crediti ti riconosco.

Nel leggere questo articolo non si può che riconoscere la sciocchezza del sistema adottato, al punto che il lettore può domandarsi come mai sia stata fatta una scelta tanto sventurata.

Uno di sinistra saprebbe già svelarci la causa: la colpa è dei dirigenti, magari messi lì per meriti politici e senza capir nulla di università, che hanno rovinato un'ottima riforma. Magari la Gabanelli ci farebbe una trasmissione su Report, con tanto di interviste a quei dirigenti e a quelli che li conoscono per evidenziarne l'arroganza, la volgarità, l'incapacità.

Uno di quelli che vanno ai cortei la vedrebbe così e si indignerebbe fortemente, pensando chissà a quali maneggi di pochi gerontocrati papponi.

Io che sono indegnamente cattolico so che i guasti sono nella realtà che noi tutti andiamo attuando con i nostri limiti e con il perseguimento dei nostri particulari.

L'attuazione della riforma è stata una manna per la gran parte dei docenti universitari, soprattutto di quelli di materie complementari, in precedenza relegate ai margini dell'insegnamento, per creare miriadi di ordinamenti, ognuno con decine di discipline (molte delle quali con denominazioni degne del Conte Mascetti di "Amici miei") prevalentemente inutili alla fine della qualificazione di uno studente in un ambito disciplinare ben determinato, ma preziosissime per rendere centrale ogni docente universitario, qualunque cosa si trovasse ad insegnare, fosse anche tetrapiloctomia a trazione mista anemo/pirica.

Il sistema dei crediti innumerevoli ha reso tutti professori e ha messo a disposizione una cattedra a persone che magari avevano durato fatica a laurearsi ai tempi dell'impegnativa laurea quadriennale.

Tutto questo ovviamente a danno degli studenti che si trovano disorientati nello sciamare di corsi confusi e rabberciati di discipline ignote al di fuori dei confini angustissimi dell'accademia.

Decine di esami preparati su qualche centinaio di pagine, spesso non di testi universitari o di classici del pensiero, della poesia, della storia ecc. ecc., ma d'appunti messi insieme alla vile, costellano il percorso "formativo" dell'universitario italiano di oggi, che si trova ad essere un viaggiatore di contrade nebulose, ovvero di "città invisibili", senza l'agio della fascinazione calviniana.

In sostanza all'università non si dà più l'incontro col maestro, inteso come lo studioso di rango di una disciplina, o con i testi dei Maggiori nella loro coriacea ma vitale complessità, ma pillole di cultura, come in un liceo che non offra più un inquadramento generale al sapere, ma solo a parti sconnesse di esso. Ben lo vide tanti anni fa Canfora che a proposito della demolizione della scuola (di matrice berlingueriana, altro che i tagli gelminiani) osservò che se il liceo viene meno, l'università diventa un liceo.

Questo sfacelo cui prodest?

Confidiamo che si sia inteso. A chi lavora nell'Università godendo di una robusta centralità anche non offrendo un insegnamento realmente formativo. Il tutto, ovviamente, a spese nostre e a danno di chi frequenta questo tipo di università, ovvero a danno dei nostri giovani.

Lo stesso discorso si può fare, si deve fare, per la scuola, per la sanità, per la giustizia, per la pubblica amministrazione.

La butto lì, in maniera rozza, come si fa nei bar quando si è terminato di leggere il giornale.

Letto l'articolo di Eco io dico (assonanzando impunemente): noi italiani si paga il servizio pubblico a vantaggio di chi ci lavora e prevalentemente a danno di chi ne fruisce. Ovvero a vantaggio di pochi (tra i quali chi parla e scrive) e a svantaggio di tutti gli altri.

Non sarà il caso di ripensare la questione in termini inversi?

Perché non pensare a un servizio pubblico a vantaggio di chi ne fruisce esigendo molto di più da chi ha l'onore di lavorarvi?

Temo che siano solo chiacchiere da bar in un Paese in cui si scende in piazza contro chi sta provando a far rinascere l'industria. Figuriamoci cosa farebbero a chi osasse dire: "dipendente pubblico schioda il culo e servi utilmente il cittadino che ti paga".

Probabilmente tirerebbero fuori i moschetti.

Che poi sappiano usarli è un altro paio di maniche, anche se in taluni casi dimostrarono una tragica, geometrica potenza.

Nessun commento: