martedì 1 novembre 2011

Irresponsabili siamo noi, non i nostri ragazzi


I giovani sono irresponsabili. Puntuale come la pioggia del fine settimana, questa geremiade si rinnova generazione dopo generazione da quando l'uomo ha imparato ad esprimere i suoi pensieri. Condividerla si può considerare un sintomo precoce di vecchiaia. Anche se oggi pare a molti che l'irresponsabilità abbia preso stabilmente piede tra i passi dei nostri ragazzi sneakerscalzati. Io, tuttavia, mi porrei una domanda. Ma noi, i loro formatori, siamo responsabili? Sapremmo rispondere sul valore della formazione che stiamo costruendo con loro? Potremmo con serena coscienza affermare che li stiamo preparando bene all'avvenire che li attende?
Posso parlare per me, per quello che vedo e conosco, ma non sarei ottimista. Temo che la risposta debba essere dubbia, se non francamente negativa.
È un fatto che coloro che saranno protagonisti di un'economia e di una società in cui il vero petrolio sembra essere quello della conoscenza, possono contare su una formazione liceale e universitaria di gran lunga più carente di quella di cui fruivano i loro nonni, che pure avrebbero vissuto in una società in cui non la conoscenza o i progetti, ma i capitali e i ceti di provenienza determinavano gli esiti dei percorsi di vita. Il grande paradosso è che potevano contare su un'istruzione migliore coloro che erano condizionati da una società rigida, mentre oggi, in un universo liquido nel quale le risorse finanziarie sciamano verso le buone idee come api impazzite, è più facile trovare un ragazzo con tanti soldi in tasca che uno che possa fare buona figura in un serio colloquio di lavoro.
Se vogliamo aiutarci ancora con le immagini, io credo che un adolescente che fosse nato nella prima metà del Novecento si trovasse a dover scalare una difficile parte rocciosa nel primo quarto della sua vita, ma conquistata la cima poteva marciare su un lungo e solido altipiano. Non era una passeggiata, ma le gambe temprate dall'ascesa non mancavano mai il passo. Un ragazzo nato nell'imminenza del crollo delle torri gemelle si trova in un percorso concepito come uno scivolo d'acqua. Si procede agilmente anche senza far nulla e l'acqua elimina ogni possibile attrito. Non solo, ad ogni curva c'è lo spazio per gridare uno yuhuuu , perché un piccolo brivido non guasta mai. È un problema? È un guaio che un ragazzo non debba fare la fatica della salita impervia e possa concedersi una piacevole discesa? È opinabile, anche se reazionario come sono sarei portato a pensare di sì. Una cosa è sicura però. Al termine di uno scivolo ad acqua ci vuole una piscina. I nostri ragazzi, invece, al termine del loro yuhueggiare si trovano spinti da un'inesorabile catapulta contro una parete priva di appigli. Ce la fa a salire in cima solo chi si ritrova con polpastrelli da geco.
Fuor di metafora, dopo un percorso formativo connivente e di manica larga, nel quale si considera già meritoria la fatica quotidiana di andare a scuola senza prendere a sediate docenti e compagni di corso, perché i ragazzi di oggi si sa come sono (come se Nostro Signore da un certo punto in poi avesse preso a fare le teste in modo diverso, ignorando che i ragazzi diventano anche quello che noi li sollecitiamo ad essere), di colpo il neodottore, o il neodiplomato, si ritrova di fronte a una società ferocemente matrigna che chiede venticinquenni con esperienza trentennale nella conduzione di un reattore nucleare (cit. Fantozzi), disposti a lavorare 12 ore al giorno gratis, perché ti do un'opportunità, che fa vuoi pure lo stipendio?
Ecco, io da quando lavoro a scuola mi pongo questa domanda. Sono irresponsabili loro, o lo siamo noi che li prepariamo così? Penso che sia vera la seconda risposta e penso che meriteremmo l'inferno come educatori incapaci di preparare alla vita le intelligenze meravigliose che il Signore ci fa incontrare ogni giorno.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 31 dell'8 ottobre 2011, p. 3

Nessun commento: