martedì 1 novembre 2011

Crisi tra ieri e oggi


Refrattari come siamo alla responsabilità, intendiamo come un moloch, come un sinistro babau la parola crisi, che pure nella sua radice greca non significa di per sé sciagura o rovina. Krisis è il momento della distinzione, della scelta, del processo, del giudizio, della soluzione.
Sia che ci si trovi a dover scegliere tra opzioni differenti, sia che si debba vagliare, o far vagliare, quello che si è fatto, krisis è il sentiero che ci porta oltre.
Per chi ha buona coscienza è un percorso agevole; Demostene accusato da Eschine poteva dire agli Ateniesi: «penso che nei miei atti politici ci sia la possibilità di giudicare» (en tois pepoliteumenois ten krisin einai nomizo XVIII 57).
Oggi siamo collettivamente molto meno baldanzosi di fronte al passaggio della crisi. Di fatto è come se venissimo convocati per un esame severo, sapendo di aver sfogliato di malavoglia i libri. Non si dorme.
La crisi, dunque, prima che l'economia devasta la nostra cattiva coscienza.
Sia a livello internazionale che a livello locale non sarebbe stato arduo rendersi conto che il sistema rischiava di essere insostenibile. Nel primo caso che il dato virtuale della finanza soverchiasse di gran lunga l'economia reale era un campanello d'allarme eloquente. Sul piano regionale il discorso è più lungo: una rete infrastrutturale insufficiente e priva di efficaci connessioni intermodali, il modesto dimensionamento delle imprese locali, la non efficace interlocuzione con gli insediamenti industriali esogeni, l'elevato costo dell'energia e della fiscalità, l'assenza di un forte soggetto creditizio abruzzese, la spesa sanitaria da troppo tempo fuori controllo, la debolezza del sistema formativo, la dipendenza di interi pezzi di territorio dalla spesa pubblica (soprattutto nelle aree interne), una classe dirigente orientata soprattutto alla difesa del proprio particulare. Un quadro non lusinghiero che fotografa la tendenza a tirare a campare, non senza una spudorata attitudine a vivere il presente ipotecando il futuro.
Il sintomo più eloquente di questa condizione è l'incapacità di offrire una risposta convincente e credibile alla crisi, un progetto in grado di reagire alle angustie presenti per fondare un nuovo benessere economico e sociale. In realtà anche questo rientra nella cifra della rimozione del significato di krisis, che vuol dire anche esito, conclusione. Per farlo bisognerebbe essere capaci di affrontare di petto il futuro, ma in realtà si tiene la testa volta al passato, in una sorta di rimpianto per i bei tempi che furono. Anni formidabili in cui alla mancanza di entrate si sopperiva attingendo largamente a risorse nazionali (svantaggiando altri territori) e ricorrendo allegramente al debito, anni di economia assistita senza alcune riguardo per modi, qualità e valore del fattore produttivo, purché si garantisse occupazione. Non ridistribuzione della ricchezza prodotta, ma distribuzione di ricchezza anche a costo di sottrarla alle generazioni di là da venire.
Del resto James Hillman osservava nel suo fortunato saggio Kinds of Power che nel XX secolo l'economia ha preso nelle anime il posto che prima aveva la religione. Da questo punto di vista poteva apparire persino giusto godere di un benessere che non si era guadagnato.
Ora non si può più, volenti o nolenti è arrivata krisis e attende da noi una risposta. Se vogliamo superare l'esame ci converrà abbandonare il prendere e risolverci al fare.


pubblicato su La Domenica d'Abruzzo, n. 21 del 23 luglio 2011, p. 5

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