mercoledì 19 gennaio 2011

Punti fermi di un cattolico in politica

1) La politica di Berlusconi non ci piace. In caso contrario l’avremmo scelta nel 1995 senza spaccare un partito che otteneva il voto di un italiano su dieci.

2) Se quella politica ci fosse andata bene non ci saremmo risolti a lavorare all’alleanza con quella sinistra che con successo avevamo combattuto politicamente per cinquanta anni.

3) Nell’alleanza e poi nella fusione con quella sinistra abbiamo fatto molte cose ma nessuna epocale, eccezione fatta per l’euro, un successo per le finanze forse meno per i cittadini.

4) Negli anni zero del nuovo millennio abbiamo coltivato il sogno di creare una forza politica nuova che unisse tutti i riformisti per dare vita a un partito in grado di affrontare le sfide di questa epoca.

5) Il tentativo è fallito sul nascere, ci siamo ritrovati nella versione scafo a fibra di carbonio del solito carrozzone comunista che dal ’21 ad oggi appassiona un italiano su tre e si fa odiare dai rimanenti due.

6) I meglio fuochisti di questo carrozzone oggi si fregano le mani perché Berlusconi pare star lì lì per cadere per una storia indecente di sottane, portata alla luce con la consueta solerzia dai compagni in toga di Milano.

7) I meglio fuochisti trascurano di dire che politicamente Berlusconi non lo hanno battuto mai, salvo quando nel 1996 riuscirono a portargli via il Bossi.

8) Accade così che l’impolitico Berlusconi abbia sempre vinto sul tavolo della politica, mentre i politicissimi frattocchiari sul ponte di comando covano la speranzella di togliere di mezzo il rivale politico mostrando la pochezza della sua dignità privata.

9) In pratica senza Berlusconi non esiste una linea politica vincente in questo paese.

10) Berlusconi, tuttavia, non ci piace (vd. 1). A questo punto il quesito è leninista: Che fare?

p.s.

S’aggiunge che ormai per noi si applica ai meglio fuochisti del carrozzone l’enunciazione iniziale dei punti 1 e 10. Con maggiore convinzione. Per incapacità, trasformismo ed impotenza (politica, almeno quella di certo).

lunedì 18 ottobre 2010

Schiavi degli interessi di chi sta in cattedra. Benvenuti nell'Università italiana. Considerazioni caffettiere su Eco

Repubblica ha stampato nella sua edizione del 15 ottobre un'importante anticipazione di un articolo di Umberto Eco in pubblicazione sul numero 3 della rivista Alfabeta2.

In questa nota ripubblico il testo del professore Eco, con l'aggiunta di qualche mia personalissima considerazione sulle cause delle iatture magnificamente descritte dallo studioso. Cause che avviano un dibattito che vorrei più generale: la questione, a mio avviso centrale, della prostituzione italica del servizio pubblico all'interesse esclusivo di chi in esso lavora (traendone una mercede) a detrimento di quanto resta del popolo italiano che tali pessimi servigi paga, in cambio di danni e miserie.

Il Paese dei dottori laureati al parcheggio

di UMBERTO ECO

La classica laurea quadriennale italiana, con una tesi finale che talora (anche se non sempre) poteva tener testa alle tesi di PhD di altre università, era un unicum italiano. Negli altri paesi in genere c'è un primo corso triennale alla fine del quale si prende, come in Francia, una license o come nei paesi anglosassoni un BA, o baccellierato. Poi si può fare quello che in America si chiama master (ma non è esattamente quello che è ora un nostro master) e, per chi ha una vocazione alla ricerca, il PhD alla fine del quale, e solamente alla fine del quale, si viene nominati Dottore (lasciamo da parte i dottorati francesi di vari cicli perché c'è da perderci la testa). Essere Dottore, in America, è così importante, che in certe situazioni formali, per onorare uno studioso, non lo si chiama "Professor" Smith bensì "Doctor" Smith. Il Professor può essere anche un laico assunto a contratto, il Doctor ha conseguito il massimo titolo accademico.Non vi dico i guai quando un nostro laureato andava a proseguire i suoi studi all'estero. La laurea italiana con la sua tesi di dimensioni mostruose valeva un PhD americano? Di solito si diceva di no. Valeva solo un BA? Era un'ingiustizia. Si poteva equipararla a un Master? Era da discutere. Ecco perché non era assurdo che, con la riforma Berlinguer, si tentasse una equiparazione dei titoli e dei periodi di studio.

La riforma era partita inoltre dalla persuasione che in Italia il numero degli studenti iscritti che non si laureavano fosse alto perché la laurea quadriennale, con il fantasma della imponente tesi finale, incoraggiava gli abbandoni o quei fuori corso chiamati "studenti in sonno". Ora si scopre che gli studenti italiani tardano anche a terminare il triennio. È una iattura, di cui andranno meglio analizzate le cause, ma di cui non è responsabile il sistema 3+2. Veniamo alla seconda iattura. Su questo stesso numero di Alfabeta Gigi Roggero mi fa dire (ma onestamente aggiunge "grosso modo") che ci volevano più laureati anche se meno preparati. Non credo di aver mai detto così, avrò detto che ci volevano più laureati anche se con un anno di meno, ed è cosa molto diversa. Infatti quando si discuteva della 3+2 ero convinto (come lo sono ancora) che in tre anni ci si possa preparare molto bene, e meglio di quanto non avvenga in un triennio americano che, per poter ricuperare su una high school disastrosa, di non solito non insegna più di quanto non faccia (o non facesse) un nostro buon liceo (e l'aspetto positivo di un BA non è nella profondità degli insegnamenti, ma nel fatto che i ragazzi vivono in college, con frequenza obbligatoria, con la possibilità di avvicinare i professori quando lo desiderano).

Come in tre anni ci si possa preparare in modo eccellente lo spiego subito, partendo dalla mia personale esperienza di studente di filosofia negli anni cinquanta. All'epoca, per la laurea quadriennale, occorreva dare diciotto esami. I nostri professori (che, detto incidentalmente, erano personaggi della taratura di Abbagnano, Bobbio, Pareyson eccetera) si erano messi tutti d'accordo in modo che alla fine dei quattro anni, tra un esame e l'altro, si riuscisse a portare (oltre ai corsi monografici) quasi tutti i classici della filosofia, da Platone a Heidegger. A seconda del quadriennio in cui capitavi poteva accaderti di saltare, che so, Hegel, ma quando ti eri scozzonato su Aristotele, Spinoza o Kant (tutte e tre le critiche) eri poi in grado di leggere da solo il resto. Di questi diciotto pesantissimi esami, per laurearsi entro il quadriennio (chi andava fuori corso o era studente lavoratore o era incappato nella classica nevrosi da tesi) se ne davano cinque in ciascuno dei primi tre anni, e tre nell'ultimo, per avere tempo da dedicare alla tesi. Nessuno è mai morto di fatica.Ora, se quei quattro anni dovevano formare un esperto in filosofia, c'erano molti esami che con la filosofia non c'entravano, come latino, italiano, o quattro di storia. Visto che all'epoca queste materie si erano già fatte molto bene al liceo, si sarebbero potuti eliminare almeno tre di quegli esami, ed ecco che si sarebbe arrivati a quindici esami di materie filosofiche, liquidabili in tre anni (senza tesi finale), e leggendo ugualmente i classici e non dei riassunti.

Perché non si è fatto così per l'attuale triennio e si è presupposto di avere a che fare con adolescenti sottosviluppati? Perché si è data un'interpretazione restrittiva e fiscale dei "crediti". I crediti sono un modo di quantificare il lavoro svolto dallo studente, in modo che se si sposta all'estero si sappia a quale livello di studio parificarlo. Si è deciso di calcolare i crediti in base alle ore passate a casa a studiare (una stupidaggine, o una finzione) o al numero di pagine da portare per l'esame. Inoltre, per giustificare il lavoro di molti vecchi e giovani docenti, si sono stabiliti tanti moduli con un numero di ore assai limitato. Ed ecco che, in base ai crediti a cui ha diritto per quel modulo, lo studente non deve studiare più di - diciamo - cento pagine, al punto da protestare se il docente gli dà un testo di centoventi pagine. Gli editori si sono riciclati facendo libri di testo tisicuzzi, e così lo studente è stato incoraggiato a leggere poco, in fretta, e ad accumulare crediti (che sono misura soltanto quantitativa) a scapito della qualità del suo apprendimento. Mentre, se proprio ci si voleva attenere all'uso europeo dei crediti, bastava legarli al numero e al risultato degli esami; se qualcuno dà due esami in luogo di uno, e col massimo dei voti, non interessa sapere quanto abbia studiato a casa; o ha studiato più degli altri, o è più sveglio, e gli si diano dunque tutti crediti che si è guadagnato, ma non gli si diminuisca il peso del lavoro, perché deve imparare a faticare.

Ho persino il sospetto che con criteri così severi forse si laureerebbero più ragazzi, perché si troverebbero di fronte a una sfida e non sarebbero incoraggiati a rigirarsi i pollici. Ma se poi non si laureano in tempo si deve anche ritenere che, tranne ovviamente le eccezioni folgoranti, arrivino già sottosviluppati dalla media superiore, come risulta dai test che denunciano ignoranze abissali - e quindi bisognerebbe mettere in discussione anche quanto avviene prima dei diciott'anni.

A rendere inoltre risibile il 3+2 c'è poi la storia grottesca del "dottore". In tutti gli altri paesi si è dottore solo dopo il dottorato di ricerca e dunque dopo almeno otto anni di studio. Con i diplomi precedenti si è solo Mister, Herr o Monsieur. Alcuni di noi avevano sconsigliato di seguire il vecchio andazzo e di definire già dottore chi terminava il biennio della laurea magistrale; ma il legislatore, forse anche sotto la pressione di tutte le mamme e i babbi d'Italia, con il Decreto del 22 ottobre 2004, n.2707 ha infine stabilito: "A coloro che hanno conseguito, in base agli ordinamenti didattici di cui al comma 1, la laurea, la laurea magistrale o specialistica e il dottorato di ricerca, competono, rispettivamente, le qualifiche accademiche di dottore, dottore magistrale e dottore di ricerca".

Spero che il lettore abbia capito: in Italia si diventa dottore tre volte, una volta dopo tre anni, l'altra dopo due e l'altra ancora dopo tre o quattro. A parte i dottorati conferiti dal cameriere o dal posteggiatore. Come faranno all'estero a prendere sul serio i nostri dottori anche se arriveranno con le tasche piene di stupidi crediti?

(15 ottobre 2010)

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Questo articolo è impeccabile per la chiarezza con cui viene denunciato il fallimento della riforma dell'Università voluta da Berlinguer e licenziata da Zecchino. Ministri di centrosinistra, anzi del nostro glorioso centrosinistra, del primo Ulivo, dei governi Prodi e poi D'Alema e Amato negli anni belli in cui pensavamo di aver intrapreso la via maestra del progresso dei popoli nella pace mondiale clintoniana (ricordate l'ulivo mondiale?).

Ma non buttiamola in politica, anche se vale sempre la pena ricordarle certe cose in un periodo nel quale vediamo orde sanculotte scendere nelle strade e nelle piazze, bloccare l'attività didattica delle università, delle scuole e delle accademie (col sostegno interessato, come si vedrà, della corporazione docente), celebrare funerali dell'università e della scuola pubblica di fronte a progetti di riforma di certo non epocali e certamente meno letali di quelli varati alla fine degli anni novanta i cui effetti Eco ha descritto così magistralmente. Perché meno letali? Perché non incidono sui contenuti e sui modi di erogare l'insegnamento, ma sui soldi e sull'arruolamento del personale docente.

Ora siccome in questa sciagurata nazione quando si parla di cultura in genere si pensa al portafogli può anche accadere che i tagli dei fondi possano essere scambiati con la morte dell'istruzione, metre viceversa riforme come quelle Berlinguer - Zecchino, realmente apocalittiche per l'insegnamento universitario, siano passate in gloria perché hanno consentito il moltiplicarsi di cattedre, di contratti, di strapuntini, insomma di ssoldi (come direbbe un mio amico) e di prospettive rosee di carriera in concorsi locali, mediamente destinati alla promozione di figli, famigli, compagne/i di letto, amici degli amici e compagnia cantando. Può anche accadere? Accade. Per questo l'accademia sibila: "Morte alla Gelmini, abbasso i concorsi nazionali".

Sed de hoc satis.

Torniamo all'articolo di Eco. Cosa ci entusiasma in quanto abbiamo letto?

L'onesta ammissione che abbiamo mandato al macero un modello formativo che funzionava, che magari era difficile da omologare con gli standard esteri, ma che, almeno nell'ambito umanistico, consentiva risultati di gran lunga superiori a quanto accadeva altrove, soprattutto negli States.

Eppure nel volgere tramestoso del secolo breve siamo riusciti a compromettere tutto e a sostituirgli un sistema tra i più inefficaci al mondo.

Quali le cause? Eco vi fa cenno quando parla del modo fiscale e capzioso con cui fu inteso il sistema dei crediti: tante ore studi, tante pagine leggi tanti crediti ti riconosco.

Nel leggere questo articolo non si può che riconoscere la sciocchezza del sistema adottato, al punto che il lettore può domandarsi come mai sia stata fatta una scelta tanto sventurata.

Uno di sinistra saprebbe già svelarci la causa: la colpa è dei dirigenti, magari messi lì per meriti politici e senza capir nulla di università, che hanno rovinato un'ottima riforma. Magari la Gabanelli ci farebbe una trasmissione su Report, con tanto di interviste a quei dirigenti e a quelli che li conoscono per evidenziarne l'arroganza, la volgarità, l'incapacità.

Uno di quelli che vanno ai cortei la vedrebbe così e si indignerebbe fortemente, pensando chissà a quali maneggi di pochi gerontocrati papponi.

Io che sono indegnamente cattolico so che i guasti sono nella realtà che noi tutti andiamo attuando con i nostri limiti e con il perseguimento dei nostri particulari.

L'attuazione della riforma è stata una manna per la gran parte dei docenti universitari, soprattutto di quelli di materie complementari, in precedenza relegate ai margini dell'insegnamento, per creare miriadi di ordinamenti, ognuno con decine di discipline (molte delle quali con denominazioni degne del Conte Mascetti di "Amici miei") prevalentemente inutili alla fine della qualificazione di uno studente in un ambito disciplinare ben determinato, ma preziosissime per rendere centrale ogni docente universitario, qualunque cosa si trovasse ad insegnare, fosse anche tetrapiloctomia a trazione mista anemo/pirica.

Il sistema dei crediti innumerevoli ha reso tutti professori e ha messo a disposizione una cattedra a persone che magari avevano durato fatica a laurearsi ai tempi dell'impegnativa laurea quadriennale.

Tutto questo ovviamente a danno degli studenti che si trovano disorientati nello sciamare di corsi confusi e rabberciati di discipline ignote al di fuori dei confini angustissimi dell'accademia.

Decine di esami preparati su qualche centinaio di pagine, spesso non di testi universitari o di classici del pensiero, della poesia, della storia ecc. ecc., ma d'appunti messi insieme alla vile, costellano il percorso "formativo" dell'universitario italiano di oggi, che si trova ad essere un viaggiatore di contrade nebulose, ovvero di "città invisibili", senza l'agio della fascinazione calviniana.

In sostanza all'università non si dà più l'incontro col maestro, inteso come lo studioso di rango di una disciplina, o con i testi dei Maggiori nella loro coriacea ma vitale complessità, ma pillole di cultura, come in un liceo che non offra più un inquadramento generale al sapere, ma solo a parti sconnesse di esso. Ben lo vide tanti anni fa Canfora che a proposito della demolizione della scuola (di matrice berlingueriana, altro che i tagli gelminiani) osservò che se il liceo viene meno, l'università diventa un liceo.

Questo sfacelo cui prodest?

Confidiamo che si sia inteso. A chi lavora nell'Università godendo di una robusta centralità anche non offrendo un insegnamento realmente formativo. Il tutto, ovviamente, a spese nostre e a danno di chi frequenta questo tipo di università, ovvero a danno dei nostri giovani.

Lo stesso discorso si può fare, si deve fare, per la scuola, per la sanità, per la giustizia, per la pubblica amministrazione.

La butto lì, in maniera rozza, come si fa nei bar quando si è terminato di leggere il giornale.

Letto l'articolo di Eco io dico (assonanzando impunemente): noi italiani si paga il servizio pubblico a vantaggio di chi ci lavora e prevalentemente a danno di chi ne fruisce. Ovvero a vantaggio di pochi (tra i quali chi parla e scrive) e a svantaggio di tutti gli altri.

Non sarà il caso di ripensare la questione in termini inversi?

Perché non pensare a un servizio pubblico a vantaggio di chi ne fruisce esigendo molto di più da chi ha l'onore di lavorarvi?

Temo che siano solo chiacchiere da bar in un Paese in cui si scende in piazza contro chi sta provando a far rinascere l'industria. Figuriamoci cosa farebbero a chi osasse dire: "dipendente pubblico schioda il culo e servi utilmente il cittadino che ti paga".

Probabilmente tirerebbero fuori i moschetti.

Che poi sappiano usarli è un altro paio di maniche, anche se in taluni casi dimostrarono una tragica, geometrica potenza.

domenica 23 maggio 2010

fu vera gloria?

Onore a chi ha vinto. L'atto di vincere è in sé carico di bellezza.
Onore soprattutto a Mourinho, immagine dell'intelligenza umana in grado di dare forza, efficacia e trionfo persino a una compagine improvvisata e storicamente perdente. Un'intelligenza in grado di scoprire un talento nascosto e disprezzato come quello di Milito, un esempio di bellezza agonistica in questi anni di sport professionistico da antiemetico.
Due sono le questioni aperte.
Se la forza dell'inter sia anche la forza del calcio italiano.
Se questa forza si conserverà anche ora che il buon Mou ha scelto di restare a Madrid.
A entrambe le questioni la risposta è negativa, a parer mio.
Nel primo caso lo dico con amarezza. L'Inter per diventare il colosso che è ha svuotato dall'interno il calcio italiano. Lo vedremo tra qualche settimana in sudafrica. Quando a dominare in Italia erano Juventus e Milan in calcio italiano (che fino a prova contraria è espresso dalla nazionale e non da una spa con sede a milano) era tra i primi al mondo e spesso il primo.
Nel secondo caso, lo dico con mesta allegria, si vedrà già a dicembre negli emirati arabi.
Nel frattempo buona festa. Scusate per la mia assenza. Non lo faccio per ragioni morettiane. Ma perché trovo che non ci sia proprio nulla da festeggiare, se non l'intelligenza di Mourinho e la bellezza di Milito. Il resto è sconfitta essenziale mutata, non senza stravolgere e distruggere tutto il resto, in vittoria attuale.

mercoledì 20 gennaio 2010

Senza verità muore la democrazia. Ovvero perché abbiamo bisogno del “Lodo Scalfari”

Senza verità muore la democrazia.
Ovvero perché abbiamo bisogno del “Lodo Scalfari” nel PD provinciale di Pescara.


I

La democrazia ha bisogno di verità. La menzogna, la simulazione degli intenti reali, gli slogan di comodo, l’ipocrisia uccidono la stessa possibilità di fare democrazia, che vuol dire anche scegliere tutti insieme con consapevolezza piena gli indirizzi, le linee e i dirigenti.
A giudicare da come stiamo massacrando sistematicamente le primarie, un canale di democrazia riconosciuto in tutto il mondo, la falsità dimora stabilmente tra noi.
Affermiamo grandi idee e principi per portare avanti interessi di fazione, di gruppo, di comparizia, dimensione quest’ultima genuinamente autoctona soprattutto nei centri minori che coronano la nostra verde provincia.
Interessi, sia chiaro, non necessariamente deleteri, spesso anzi ragionevoli, ma viziati dal respiro corto che li caratterizza, sagomati come sono su prospettive personali, o di cerchia, o di campanile, il cui raggio di visione, vertiginoso per alcuni, delimita d’ogni parte l’area di attrattiva di tanti nostri amici.
Così la divisione regna sovrana, ma non potendo affermare se stessa come valore, ne inventa e ne proclama ventriloqua innumerevoli altri, vivendo infinite metamorfosi di menzogna pur di seguitare a contrapporre persona a persona, banda a banda, borgo a borgo.

II

La divisione regna anche nel Partito Democratico della provincia di Pescara, nel quale si sono candidate quattro persone diverse alla carica di segretario provinciale; quattro persone tutte degnissime, una di queste addirittura un fratello per me, Antonio Di Marco, credo il miglior sindaco eletto in questa provincia negli ultimi anni.
Tre di questi uomini appartengono alla mia generazione, quella dei trentenni che dovrebbero risollevare un partito mandato in rovina da chi ha governato sin qui, anche con nostre responsabilità.
Proprio questo passaggio rappresentava un’occasione preziosa per dimostrare di aver inteso la lezione e di saper riscattare un passato di luci, ma anche di ombre.
Non è andata così.
La mia generazione ha subito le logiche consuete e si è divisa, fornendo suoi uomini di valore per rappresentare lo scontro tra pezzi di vecchia classe dirigente incaponitisi nel continuare a tirare a campare malgrado tutto.
Una battaglia insensata e rancorosa volta più al passato e alle sue eredità, che al futuro e alle sue prospettive.
Ma la storia è piena di miracoli che trasformano gli scontri più aspri in vittorie inaspettate.
Un mezzo miracolo è accaduto anche domenica scorsa, grazie ai quindicimila che sono andati a votare. Quindicimila persone che, sia pure con differenti motivazioni (c’era qualche famiglio, qualche cliente, qualcuno condotto di peso, ma anche tanti altri spinti intenzionati a dimostrare appartenenza e interesse a questo sventurato partito), hanno trasformato una tenzone rusticana in un evento politico.
Un evento che ha dimostrato, ancora una volta, che il PD in provincia di Pescara c’è, perché ha un suo popolo che meriterebbe dirigenti migliori e tesi a perseguire più il bene generale che quello di banda.
Questo popolo, invece, si ritrova con i dirigenti che ci sono, i quali da lunedì hanno cominciato a lavorare, d’impegno più che d’ingegno, per demolire l’evento nel suo significato di miracolo di partecipazione democratica.
I quindicimila elettori hanno fatto la loro scelta tra i quattro candidati, preferendo, sia pure di qualche centinaio di voti, Toni Castricone ad Antonio Di Marco. Manciate di voti hanno ottenuto Pino De Dominicis e, in misura minore, Davide Patriarca.
Malgrado questa indicazione popolare, sfruttando un codicillo del regolamento, in queste ore i campioni della divisione sono al lavoro per cancellarne il significato, cercando di raccogliere le firme di tutti i delegati eletti con i tre candidati che hanno ottenuto il minor numero di voti. Dicono che basterebbero anche le firme dei delegati eletti con il secondo e con il terzo candidato con l’aggiunta di qualche transfuga, specie che non manca mai dalle nostre parti. Dicono che sarebbe sufficiente per avere in assemblea provinciale qualche voto in più di quelli a disposizione del candidato uscito più votato dalle primarie.
Fanno, dicono. Ma cosa?
Mentre organizzano un disegno opaco di mera riaffermazione di un potere declinante, devastano sia il partito, illudendosi che si possa governare con una metà armata contro l’altra, sia le aspettative dei nostri elettori, le cui indicazioni sarebbero cancellate con un’intesa, o meglio con un patto siglato in qualche tinello.
Dobbiamo scongiurare che tutto questo possa avvenire.

III

Quando abbiamo svolto le primarie per il segretario nazionale, temendo un esito come quello che si è verificato poi domenica scorsa a Pescara, i candidati principali, Franceschini e Bersani, concordarono che in caso nessuno avesse raggiunto il 50% dei voti, l’assemblea nazionale avrebbe eletto segretario quello che avesse ottenuto più suffragi popolari, senza bisogno di accordi sottobanco, di intese clandestine, di convergenze equivoche di interessi prima divergenti. Tutto trasparente, tutto alla luce del sole. Questo criterio fu chiamato “Lodo Scalfari”.
Per il livello nazionale non fu necessaria la sua applicazione, perché Bersani ottenne la maggioranza assoluta.
Ma ora serve applicarlo a Pescara, per fermare le bande prima che ci distruggano.
Evitiamoci, ve ne scongiuro, l’ennesima chiamata alle armi.
Toni Castricone proponga una gestione unitaria del partito, coinvolgendo Antonio Di Marco ed anche Pino De Dominicis e Davide Patriarca.
Ma in modo palese, sotto gli occhi di tutti. Restituendo alla politica quella tensione alla verità senza la quale non si dà democrazia. E tanto meno un partito democratico.




Marco Presutti
Coordinamento Politico Regionale PD Abruzzo

giovedì 24 dicembre 2009

Natale

Natale è il mondo che si rinnova.
Natale è la vita stessa che torna a visitare la terra, rianimando il mondo in rovina.
Natale è il Verbo che si fa carne e rende viva per sempre la nostra natura mortale.
Viviamo tutti questo Natale nella gioia e nel ringraziamento.



(Francesco di Giorgio Martini, Natività, San Domenico, Siena)

martedì 1 dicembre 2009

Left getti il Crocifisso? Io getto questa sinistra nel cestino. Senza rancore

Un cestino nero pieno di cartacce appallottolate.
Un’immagine che si presterebbe bene a simboleggiare i fallimenti di decenni di dottrine che per cambiare il mondo e per fondare una nuova umanità hanno reso gli uomini schiavi di altri uomini, provocato l’uccisione di centinaia di milioni di persone e dissolto le regole di buona convivenza che da settimane di secoli regolavano famiglie e società.
Ma qualcosa non quadra. In quel cestino c’è anche un crocifisso. E sotto in rosso campeggia una scritta che vorrebbe essere provocatoria, irridente: “E così sia”.
In quel cestino redattori già in eskimo ed ora in polacchine vorrebbero buttare l’icona dell’Uomo Dio che si offre come vittima innocente per far trionfare l’amore sull’odio.
Gente sprezzante che detesta cordialmente chiunque la pensi in modo diverso, che nega ragionevolezza e dignità di interlocuzione a chi non intona i suoi mantra nichilistici, che deride chi cerca un senso nel cammino della vita, quella gente gode nel gettare il Cristo inchiodato alla croce in un cestino di cartastraccia.
Perversi intellettuali scelgono un crocifisso dorato, come a negare spiritualità a una realtà che sarebbe solo mondana, loro che disperatamente consumano un’esistenza tutta confinata a questo orizzonte terreno, cercando per sé quanta più gratificazione materiale possibile.
Sciocchi statistici godono di un’ennesima inchiesta che dimostra che abbonda il peccato nel popolo dei credenti. E di nuovo vorrebbero gridare: Dio non c’è, o meglio Dio non c’è più. Sono rimaste solo le nostre belle polacchine. Baciatecele.
La Chiesa non è minata dal peccato, Cristo è salito su quella croce proprio perché il peccato sarebbe abbondato.
Lo sa ogni credente, lo so io mentre scrivo queste note e conosco e detesto le mie colpe e le tante volte che ho abbandonato gli insegnamenti della Chiesa per inseguire seducenti lusinghe di realizzazione personale, di egoismo, di piacere.
E tremo mentre scrivo, perché il male continua a suonare la sua musica ammaliante all’orecchio della mia anima. Un’anima superba che vorrebbe essere veggente anche quando cammina per sentieri oscuri.
Ma intanto ho scoperto una luce. Intanto ora posso ricominciare un cammino.
È stato un lampo, questa mattina, alle 7,15, mentre cercavo di prendere un treno per andare a scuola.
La copertina blasfema, oscena, idiota, desolata, ebbra di farneticazione campeggiava nell’edicola della stazione.
Un lampo ha dissolto le tenebre della mia pigrizia morale ed intellettuale.
“Left” vorrebbe il Crocifisso nel cestino?
Cominciamo con il buttare questa sinistra nel cestino. Questa sinistra disumana ed immorale. Disperata e disperante. E gettarla così tra le carte sciocche delle sue farneticazioni perché torni a pascersene, gettarla e andare via, riprendendo il cammino, senza rancore.

Marco Presutti

1 dicembre 2009, memoria del Beato Carlo di Gesù (Charles de Foucauld).

sabato 25 luglio 2009

Guido Gozzano, "La differenza"


La differenza

Penso e ripenso: - Che mai pensa l'oca
gracidante alla riva del canale?
Pare felice! Al vespero invernale
protende il collo, giubilando roca.

Salta starnazza si rituffa gioca:
né certo sogna d'essere mortale
né certo sogna il prossimo Natale
né l'armi corruscanti della cuoca.

- O pàpera, mia candida sorella,
tu insegni che la Morte non esiste:
solo si muore da che s'è pensato.

Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!
Ché l'esser cucinato non è triste,
triste è il pensare d'esser cucinato.

G. Gozzano, "La via del rifugio"

lunedì 23 febbraio 2009

l'abbeceDario

«Io non so che cosa è la scienza, perché la vacca quando ero un ragazzo mi ha mangiato l'abbecedario». La smania librofaga d’una vacca come causa fatale di una perdita irreparabile. Così  la mette Lanzavecchia senior in Giacomo l’idealista di Emilio De Marchi (Opere, 1951, p. 319). Perché non un libro divorò il cornuto ruminante, ma il libro. L’abbecedario, ovvero il fondamento dell’istruzione, il che vale a dire il fondamento di ogni cammino di emancipazione e di riscatto nell’Italia ancora ignara dei crimini della pedagogia progressista.

Una pedagogia di figurine e filmati che aveva solidamente piantato le tende, rigorosamente di tendenza, nella casa di tutti i riformisti, quel partito trovatosi improvvisamente senza guida dopo aver perso l’isola dei nuraghi, ovvero il continente alla deriva nel Tirreno.

«Senza guida da che parte si va?». Questo avranno pensato gli oligarchi del PD di fronte all’ennesima furbata di Uolter Veltroni, che dell’arte del “Si salvi Sansone, muoiano i Filistei” è maestro indiscusso (e solo di quello).

Il darsi alla macchia di Uolter deve aver lasciato spiazzati  i “Cari Leader” di coreana tradizione, i quali per parte loro già gustavano nelle papille linguali lo spettacolo della crocifissione dello studioso del Gatto Felix (Cossiga dixt), dopo la disfatta prossima ventura alle Europee.

«Che si fa?» la variante pariolina dell’antica domanda leninista risuonava diffusa come un muggito nelle sale ampie del Nazareno, che già videro regnare Francesco il pietoso fu radicale.

«Qui qualcuno dovrebbe ricominciare dall’abbecedario» disse allora con il consueto sarcasmo quello, al contempo, più e meno “Caro Leader” degli altri.

La frecciata svelta colse la fronte assorta di un che disse: «Ah, be’, c’è Dario».

Come l’alba della Resurrezione, tale la pensata sfolgorò al Nazareno, testimone non la penitente Maddalena, ma la presidente Finocchiaro.

La sua voce densa di sole, di mare e di bionde diede l’annunzio al mondo: «Il PD non si ferma qui. Si riparte dall’abbeceDario».

E si riparte, sperando che il giovane maestro della Bassa Padana faccia onore al suo nome, voltando le spalle agli anni frolli di cinema e varietà.

Sempre che questa volta le mucche restino a digiuno.

mercoledì 24 dicembre 2008

Il Natale della Miscellanea



Natale è un nuovo inizio. Andiamo

domenica 2 novembre 2008

Maestri di impero. Luciano Canfora a Pescara

La Miscellanea dà conto anche degli articoli che il suo curatore va, molto episodicamente (è accidioso), pubblicando su testate ospitali.

Ecco quello che ci pubblica oggi (2 Novembre 2008) il "il Messaggero" nel dorso Abruzzo a pagina 39.


Il segreto dell’impero? L’integrazione dei popoli
Dalla Persia ad Atene, a Roma: la conversazione di Luciano Canfora all’Accademia d’Abruzzo


di MARCO PRESUTTI*

Duro destino quello dell'impero.
Vagheggiato come sogno agli inizi del Novecento, reciprocamente rimproverato come insulto dai due blocchi della guerra fredda, praticamente svanito dal discorso pubblico negli anni recenti dell'apparente "pax americana".
Un quadro paradossale che invita a riflettere sulle tipologie di impero.
Questo ha fatto venerdì 24 ottobre nella sala consiliare del Comune di Pescara Luciano Canfora, ordinario di Filologia Classica all'Università di Bari, storico e saggista autorevole non meno che rivoluzionario.
Invitato dalla meritoria Accademia d'Abruzzo, Canfora ha ragionato sulle forme greche e romane dell'impero, nelle quali possiamo trovare indicazioni preziose anche per la riflessione politica contemporanea.
L'impero nasce come realtà ostile, palesata nell'incombente minaccia del persiano pronto a dilagare nello spazio greco con le due spedizioni punitive di Dario e di Serse. Dall'imprevedibile disfatta persiana sul mare di fronte a Salamina nasce una nuova realtà imperiale, quella ateniese. Un impero di nuova concezione, che formalmente si presenta come un'alleanza antipersiana, ma che per circa 70 anni nel quinto secolo avanti Cristo è lo strumento della politica di potenza della città democratica. La sua flotta militare, che domina il mare e che spezza sul nascere ogni ribellione delle città tributarie, finanzia la stessa democrazia ateniese, i bisogni crescenti dei suoi cittadini, l'ambizioso programma architettonico dell'acropoli, con una morsa sempre più dura nei confronti degli alleati tartassati e con una spinta sempre maggiore all'aggressione esterna.
Un altro modello di egemonia è quello di Sparta, un dominio cui si sottomettono quasi tutte le città del Peloponneso per via del prestigio militare e politico di questa polis, considerata paradigma di buon governo. Il mito di Sparta ha esercitato una forte influenza nei secoli. Canfora ha ricordato in proposito l'ammirazione perversa di Hitler che a tavola avrebbe esclamato: «Sparta era lo stato razziale perfetto». Lo studioso ha sottolineato che proprio questa chiusura delle città greche nei confronti dei non cittadini è stata la falla che le ha condannate nel lungo periodo.
Roma è tutta un'altra storia. La spinta imperiale si sviluppa in questa civiltà prima ancora che si possa formalizzare un concetto di impero. La forza militare si accompagna all'integrazione delle classi dominanti delle province conquistate. Per i Romani era chiaro quello che più tardi disse Bismarck "Con le baionette si può fare tutto, tranne che sedercisi sopra". La politica di inclusione ha fatto sì che l'impero romano, che per Canfora è più corretto definire come una repubblica imperiale, sia durato per tanti secoli dominando l'intero Mediterraneo. Anzi, l'impero romano si può considerare almeno bimillenario, visto che l'ultimo imperatore dei romani muore con la conquista di Costantinopoli del 1453 e che il sultano dei Turchi, Maometto II, si fa acclamare nuovo imperatore.
Una storia di lunghissima durata resa possibile dall'estensione della cittadinanza agli stranieri, che da barbari si fanno romani. Ecco chi sono i maestri d'impero, ha concluso Canfora.
Maestri da cui non è sciocco provare ad imparare, xenofobi di tutti i colori permettendo.

* Presidente Fondazione Europa prossima

sabato 1 novembre 2008

Da una goccia di troppo germogliano democratici disobbedienti

In una tarda mattinata sabatina, greve di nero umore d'amarezza, per l'insipienza con cui la classe non dirigente che comanda sul nostro partito ha messo mano alla questione delle candidature con cui avremmo dovuto esprimere la ripartenza del PD dopo la tragedia del 14 luglio, e anche per la consapevolezza di candidare una lista di familiari e di famigli cui non affideremmo la nostra rappresentanza in una bocciofila, figuriamoci presso il Consiglio Regionale dell'Abruzzo, ecco che in siffatto spleen giunge come goccia fatale un sms dal numero +923028267026 (ore 11.16 del 1 novembre 2008)

"su proposta del PD naz e reg ho accettato di essere capolista (prov.PE). Ho bisogno del tuo aiuto per continuare a cambiare e moralizzare l'Abruzzo. EnrPaolini"

La misura è colma. Questo personaggio, privo forse anche del suo voto personale, che da anni occupa posizioni di vertice politico in ragione di amicizie e di complicità, che ha dato pessima prova di sé nella vice presidenza della Regione, che ha tenuto all'oscuro noi tutti delle anomalie e dei reati che egli sostiene di aver ravvisato nella conduzione della sanità regionale, esponendoci così al 14 luglio come a una bomba che esploda in tempo di pace, questo personaggio annuncia al mondo di aver accettato di essere capolista.
Capolista.
Non dice di essersi candidato, così come hanno fatto tutti gli altri. No, egli ci significa che graziosamente s'è degnato di aderire alle sollecitazioni che gli provenivano dai vertici nazionali e regionali del partito (e chi saranno simili imbecilli?) acché egli si degnasse di guidare la lista del nostro partito, che forse altrimenti sarebbe stata orba di tanto ingegno, il quale ci chiede niente meno di aiutarlo a cambiare e a moralizzare l'Abruzzo.
Io dico basta.
L'Abruzzo si cambia e si moralizza se gli abruzzesi, a partire dai loro vertici, vivono del loro lavoro e spendono le loro professionalità per lo sviluppo di tutti. Questa considerazione tanto ovvia si esprime solo per una ragione. Per evidenziare che Enrico Paolini è il contrario di quello di cui abbiamo bisogno. E lo stesso temo si possa dire degli altri 7 che egli guiderà nella competizione elettorale.
Di fronte a tanto sfacelo, di fronte a tanta miseria io penso che sia possibile ripetere le parole tanto abusate di Don Milani: l'obbedienza non è più una virtù.

Ed oggi come mai io mi sento un democratico disobbediente

martedì 21 ottobre 2008

Salva l'Italia? E come può farlo un PD in mano ai fiaccolari?

Il più grande partito riformista della storia d'Italia sceglie come sua prima iniziativa nazionale una manifestazione di piazza per protestare contro il governo che contribuirebbe a determinare il declino politico, economico e morale del Paese. Basta leggere la motivazione di questa proposta per cogliere un'impostazione politica e culturale che rinnega alla radice il profilo riformista che dovrebbe caratterizzare il Partito Democratico. Un tradimento che ha un responsabile evidente: la leadership nazionale in difficoltà dopo la sconfitta elettorale di primavera. Dopo aver fatto deragliare il Governo Prodi nella speranza di incassare nelle urne un successo facile sulle ali della novità, dopo una balbettante e farsesca fase post elezioni di amoreggiamenti con Berlusconi, si torna alla classica strategia dell'autunno caldo per consolidare la forza della dirigenza nel fronte interno al partito. Se questa linea poteva funzionare nel Partito Comunista Italiano, non va bene per il Partito Democratico. Abbiamo bisogno di una classe dirigente in grado di incalzare e di mettere all'angolo il Governo Berlusconi avanzando idee e proposte di riforma più intelligenti e coraggiose. Salviamo l'Italia? Certamente, ma solo se salviamo il PD dalla dittatura molle dei "fiaccolari".

domenica 12 ottobre 2008

chi di invettiva ferisce trova un lothar che lo finisce

questo ho pensato oggi quando ho aperto il centro e ho letto la puntuale risposta del club "siamo gli amici di stefania pezzopane".
Sul Centro di oggi a pagina 13 si poteva leggere quanto segue

Pezzopane: «Resto al mio posto nel Pd»
L’AQUILA. «Oggi sarò a Sulmona a presiedere regolarmente l’assemblea regionale del Partito democratico». Stefania Pezzopane replica così a Marco Presutti, dirigente del Pd che ieri aveva chiesto le dimissioni della Pezzopane dalla presidenza regionale del Pd. Secondo Presutti la Pezzopane aveva sbagliato prima a criticare la realizzazione della nuova sede del consiglio regionale e poi a disertare l’inaugurazione che si è svolta ieri a Pescara. Dunque la Pezzopane ha considerato «irricevibile» l’invito di Presutti a lasciare la presidenza del Pd e ha chiarito: «Conosco bene la differenza fra ruolo politico e ruolo istituzionale» ha detto. Ma dall’Aquila non si placa la polemica contro la sede del consiglio regionale inaugurata ieri a Pescara, doppione di palazzo dell’Emiciclo nel capoluogo di Regione. Il capogrupo del Pd in consiglio comunale Pietro Di Stefano attacca Presutti per quanto ha detto sulla Pezzopane. «E’ assurda e incredibile l’invettiva di dimissioni dalla presidenza regionale del Pd lanciate da Presutti nei confronti della presidente della Provincia Stefania Pezzopane per la sua posizione, condivisa, sul doppione della sede della presidenza del Consiglio Regionale, aperta a Pescara. Vorrei capire il motivo per il quale si è inteso ficcare il partito dentro una dialettica tra istituzioni; non mi è sembrata un’idea geniale tanto più che in sede di partito non si è mai discusso dell’opportunità o meno di tale scelta».


Ora si potrebbero replicare tante cose a partire da quello che, ipotizziamo acidamente anche nel tono di voce, ha detto la presidente Pezzopane "conosco bene la differenza...". Ma cara signora, mica le avevo contestato ignoranza, avevo contestato il suo comportamento. Conoscere, infatti, non equivale a bene operare, e non è che la si scopra oggi questa cosa.

Più intrigante e più diretta all'estensore della miscellanea è la replica di Pietro Di Stefano (...il destino beffardo dei nomi, proprio un Pietro di Stefania...), che oltre a guidare il gruppo del PD nel consiglio comunale della città che mi ha dato i natali, si erge a paladino di Madonna Stefania, novello cavaliere senza macchia e senza paura contro gli ignobili assalti ai danni dell'amata presidente.

Tanta la foga proruppe dalle labbra del cavaliero da schiacciare lo stesso senso delle parole poverelle uscite tra lo strepito della sua bocca. Dalle colonne del Centro s'affaccia così basita al mondo un'"invettiva di dimissioni", alla cui lettura tutti fanno oh, soprattutto quando si moltiplica trovandosi ad essere "lanciate", forse per sottolineare ed enfatizzare la virulenza sacrilega dell'assalto (e come ci cade a fagiuolo il verbo lanciare per alludere all'infida saetta) contro l'amata presidente.
Presidente che si trova, nelle parole del fido Pietro (immune da canti di galli), in una scomoda, benché condivisa, posizione: quella su un doppione di sedi. O fido cavaliere, e non ci sarà il rischio che stia in bilico Monna Stefania? Soccurre, Pietro, adiuta.
Da ultimo il cavaliere interroga con sdegno: perchè si è voluto ficcare dentro il partito? E che ne sappiamo noi? Ma soprattutto chi ha ficcato dentro? E che vorrà mai dire ficcare? I siciliani penseranno a un'oscenità, noi altri a una certa ineleganza della frase.
Ma via, non di raffinatezze di stile s'ha da intendere un paladino, ma di vigore e di eroicità.
E nelle frasi del nostro Pietro vi sono l'uno e l'altra, se ve le pone attonito il lettore che se le trova di fronte nel giornale della domenica. Vigore di intelligenza nel cercare i significati, eroicità nel portare avanti la lettura.

E sì caro fratello. Questo succede, quando si invettiva Monna, un Lothar implacabile ti finisce.

sabato 11 ottobre 2008

e il Centro titola: nel PD Presutti contro Pezzopane

dal Centro di sabato 11 ottobre, pagina 12

L’Aquila e Pescara divise come 37 anni fa
Cialente: il doppione è uno spreco immorale. Nel Pd Presutti contro Pezzopane

di Giustino Parisse

L’AQUILA.Oggi L’Aquila non ci sarà. Nessun rappresentante del capoluogo di Regione parteciperà all’inaugurazione della sede del consiglio regionale a Pescara. «E’ una cosa immorale» ha detto il sindaco dell’Aquila, Cialente. Dopo 37 anni la Regione torna a dividere L’Aquila e Pescara.
La posizione del sindaco arriva 24 ore dopo quella della presidente della Provincia Stefania Pezzopane che aveva parlato di «spreco di denaro e inutile doppione». E proprio questa dichiarazione spacca anche il Partito democratico. Marco Presutti dirigente regionale del Pd, chiede le dimissioni della collega di partito dalla presidenza del Pd regionale.
«Questa regione ha bisogno di unità e chi ha funzioni regionali deve spendersi per garantirle, senza evocare i fantasmi dei campanilismi», sottolinea Presutti, «per questo, io da nativo dell’Aquila e figlio di un aquilano, vivo a Pescara per ragioni di lavoro mi sento offeso e umiliato dalla polemica della Pezzopane. Io ritengo che è una sede legittima perchè lo statuto prevede che il consiglio si riunisca all’Aquila e Pescara. Finora, inoltre, si spendevano soldi dei fitti, semmai così si evita uno spreco. La polemica è quindi fuori luogo. A questo punto o Stefania Pezzopane riconosce di aver sbagliato, oppure se persiste in questo atteggiamento di irresponsabilità istituzionale, è evidente che non può continuare a svolgere la funzione di presidente del Pd abruzzese. Se non si scuserà o presenterà le dimissioni non parteciperò più ai lavori dell’assembla regionale del Pd».
La Pezzopane replica indirettamente: «Dopo il mio no alla partecipazione all’inaugurazione» ha detto «ho ricevuto decine di sms di persone che si sono dette d’accordo con me. Quella nuova sede è uno schiaffo ai tanti che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese e anche al ruolo istituzionale dell’Aquila capoluogo». La nuova sede del consiglio regionale di Pescara è costata circa 10 milioni di euro e per far funzionare gli uffici (soprattutto quelli dei gruppi consiliari) avrà bisogno di personale aggiuntivo a quello che già esiste. Una montagna di soldi per dotare la Regione Abruzzo, caso forse unico in Italia, di ben tre aule consiliari: quella “vecchia” all’Aquila (che ancora è in funzione), quella nuova sempre all’Aquila (pronta da tempo ma ancora inutilizzata) e quella nuova a Pescara che, tra l’altro, è ancora tutta da fare visto che attualmente nel palazzo acquistato dalla Regione c’è solo una sala congressi non attrezzata per eventuali consigli regionali. Insomma un pasticcio che butta benzina sul fuoco sul contestatissimo compromesso che nel 1971 - fra proteste, barricate e cariche dei celerini - di fatto divise gli uffici della Regione un po’ all’Aquila e un po’ a Pescara. Il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente è durissimo: «Nel momento in cui si tagliano fondi a istituzioni culturali - che sono il vanto dell’Aquila - e persino alla mensa dei poveri, si dà vita a una vera e propria fiera dello spreco e dell’inutile. Non me la sento di partecipare alla triste danza che si consumerà intorno al bisonte che muore».

Devo riconoscere che a parte qualche solecismo il giornale ha riportato correttamente il mio pensiero, senza indulgere ai sensazionalismi. è saltata del tutto, invece, penso per ragioni di spazio, il riferimento alla lista che ho coordinato sul piano regionale alle primarie del partito, la lista Letta. Con quella lista, infatti, noi abbiamo perseguito una posizione di unione tra le componenti del partito e tra i territori della regione. Quella politica ci ha premiato e ci ha attribuito il 10 % alla primarie del 14 ottobre del 2007. Per questa ragione non ho potuto tacere di fronte ai risorgenti campanilismi pezzopaniani.

Il giornale ha reso più tirata l'uscita sulla prima pagina nella quale oggi si legge

Oggi nel capoluogo adriatico l’apertura di una nuova sede La Regione divide L’Aquila e Pescara Cialente e Pezzopane disertano la cerimonia, lite anche nel Pd L’AQUILA.Un salto all’indietro nel tempo di 37 anni. E’ questo l’effetto della inaugurazione, prevista oggi nel capoluogo adriatico, della sede pescarese del consiglio regionale. Come nel 1971, quando di decise di “spartire” gli assessorati, L’Aquila (capoluogo regionale) e Pescara tornano a dividersi. La cerimonia di stamani sarà disertata dal sindaco dell’Aquila Cialente e dalla presidente della Provincia, Pezzopane. Ed è scontro anche nel Pd. Presutti chiede le dimissioni della Pezzopane che ieri aveva detto: «La doppia sede è inutile e costosa».

Condivido pienamente il fatto che questa inutile uscita polemica della presidente Pezzopane ci faccia compiere un salto indietro di 37 anni.
Cara Pezzopane, guarda che io ne ho solo 34!!!

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ore 16,00
ho appena inviato per mail una lettera all'assemblea regionale del PD attualmente in corso, nella quale spiego perché non parteciperò all'incontro. Spero che venga letta. A beneficio delle moltitudini di lettori della miscellanea la riporto per intero:

Pescara, 11 ottobre 2008

Al Segretario Regionale
del Partito Democratico d’Abruzzo

Ai Componenti l’Assemblea Regionale
del Partito Democratico d’Abruzzo

Loro sedi


Cari amici,
oggi non parteciperò con voi all’Assemblea regionale convocata a Sulmona.
Questa assenza è motivata da una scelta politica.
Non è ammissibile che la presidente dell’Assemblea, dott.ssa Stefania Pezzopane, dia spazio a polemiche di taglio campanilistico che, a prescindere dal merito più che discutibile, veicolano elementi pericolosi di rottura e di frizione in una regione che oggi più che mai ha bisogno di unità per superare la presente crisi economica e politica.
Come abruzzese nato da un aquilano e da una pescarese che hanno scelto di amarsi e di costruire una famiglia nei primi anni Settanta, mentre tanti loro concittadini si combattevano in una lotta tanto grottesca quanto sterile, non posso accettare che chi ha responsabilità regionali favorisca nuovi e sciagurati rigurgiti localistici.
La classe dirigente del Partito Democratico deve dimostrare di avere un progetto complessivo per tutto l’Abruzzo, evitando di percorrere la strada facile, ma pericolosa ed improduttiva, del consenso municipalistico.
Su questa posizione lo scorso anno ci siamo candidati alle primarie con le Liste di Enrico Letta che hanno ottenuto complessivamente circa il 10% dei consensi degli abruzzesi.
Questa posizione resta ancora oggi ferma per me e per gli amici che in tale linea vogliono riconoscersi.
Da qui dobbiamo ripartire per restituire forza ed autorevolezza al nostro partito anche alle prossime elezioni regionali.
Da liberale e da democratico, tuttavia, non voglio stigmatizzare o censurare comportamenti altrui, ma chiedo che la presidente Pezzopane chiarisca la sua posizione.
Se le sue dichiarazioni alla stampa sono state fraintese lo dica e contribuisca anche lei all’integrazione tra i nostri territori. Se, invece, il suo pensiero di oggi resta quello pubblicato ieri sulla stampa, credo che la dott.ssa Pezzopane non possa più essere la presidente dell’Assemblea, la presidente che anche io ho votato.
Confido che la presidente voglia chiarire al più presto la sua posizione, anche approfittando dell’assemblea di oggi e rilanciando un segnale di unità.
Fino a quando non ci sarà questo chiarimento indispensabile, per rimarcare l’importanza di questo tema, con rammarico non potrò più partecipare ai lavori dell’Assemblea regionale.
Con cordiale amicizia vi saluto tutti, augurandovi buon lavoro per l’Abruzzo


Marco Presutti

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alle 22,00 dello stesso 11 ottobre ho appreso che la mia lettera non è stata letta ai membri dell'Assemblea Regionale, né si è fatto cenno del suo contenuto neppure per sommi capi nel corso della riunione. Ne consegue che, ovviamente, la dr.ssa Stefania Pezzopane non ha chiarito in alcun modo il senso delle sue dichiarazione campanilistiche, né le ha sconfessate in alcun modo.
Ma che bel partito democratico il nostro, più che altro un democratico partito, chissà come sarà una volta arrivato.

cara Pezzopane il campanilismo è un orrore. o correggi la linea o ti dimetti : a te la scelta

Da tempo sono avvezzo a leggere e sentire di tutto dagli esponenti della sedicente classe dirigente al vertice del mio partito in Abruzzo. Per fortuna, però, mi riesce ancora di indignarmi quando viene superata oltre una certa misura la linea della decenza.
Ne ho avuto conferma oggi quando a pagina 13 del Centro (ed. del 10 ottobre 2008) ho letto:

«Nuova sede, solo sprechi».
Pezzopane: no al palazzo della Regione a Pescara
Alla vigilia della cerimonia di inaugurazione (della nuova sede del Consiglio regionale a Pescara) lo scontro si infiamma per la dura presa di posizione del presidente della Provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane presidente del Pd, che ha declinato polemicamente l’invito a partecipare all’evento formulato dal presidente del Consiglio regionale, Marino Roselli suo collega nel Pd.
«L’ho fatto», spiega la Pezzopane, «perché ritengo inopportuna la scelta di creare inutili doppioni, per ragioni economiche, sociali e politiche. E’ singolare che solo in Abruzzo, proprio nell’era dei collegamenti telematici, si senta la necessità di moltiplicare sedi ed uffici, in spregio alle spese che questo comporta, e all’offesa che si arreca al capoluogo istituzionale e alla sua popolazione della Provincia dell’Aquila, già umiliata da un depauperamento senza precedenti nella storia di questa città».


Questa lettura mi ha lasciato prima attonito e poi mi ha suscitato un'indignazione emula dei buoni vecchi principi di Giovenale.
Non è più ammissibile tollerare tanta faziosità da parte di chi ha responsabilità istituzionali.
In Abruzzo abbiamo sempre più bisogno di unità tra i territori, soprattutto in un momento di crisi come questa. E cosa succede invece? Una presidente di Provincia risuscita una polemica campanilistica degna degli anni più bui del Novecento.
Una presidente di Provincia che per di più è anche presidente dell'Assemblea Regionale del Partito Democratico.
Evidentemente, però, la consapevolezza dei doveri imposti dal ruolo sono meno forti degli appetiti elettoralistici che la demagogia e il campanilismo possono soddisfare con poca spesa, anche se con molti danni.
Io voglio sperare che la posizione della Pezzopane sia frutto di un fraintendimento. Se è così che la presidente intervenga e corregga l'errore. Ma se così non è, allora dobbiamo prendere atto che la Pezzopane non è adeguata a svolgere la funzione di presidente dei democratici d'Abruzzo.
Per questo chiedo alla Pezzopane di assumersi le sue responsabilità: o corregge il tiro, o si dimette.
Io nel frattempo non prenderò più parte all'Assemblea Regionale del Partito fino a quando la presidente non avrà voluto chiarire la sua posizione.
Ne va della dignità del partito, ne va della nostra credibilità di "classe dirigente" in grado di proporre idee per lo sviluppo di tutto l'Abruzzo, ne va di una concezione della politica come rappresentanza di interessi generali e non di particolarismi di orticello e e di bottega.

mercoledì 1 ottobre 2008

la malattia della scuola? la cattiva pedagogia

Tra le più grandi fortune della mia vita c'è quella di aver conosciuto e di aver potuto scambiare qualche parola con Luciano Canfora. Uno dei pochi maestri ancora in circolazione, uno di quelli di cui bisogna "leggere tutto". Anche sulla scuola il suo pensiero è nitido, corrosivo, salutare, come lo è la sua filologia.
Riporto per intero la sua intervista del 29 settembre scorso al quotidiano "Libero". L'intervista, a pag. 33 del quotidiano, è di Miska Ruggieri. Il titolo è eloquente : "Scuola malata di cattiva pedagogia".

"A Cividale del Friuli, al convegno internazionale di storia antica “Ordine e sovversione nel mondo greco e romano” organizzato dalla Fondazione Canussio, ha trattato della costituzione mista, dalla celebre definizione di Polibio a Machiavelli. Ma lo storico e filologo Luciano Canfora non si tira certo indietro davanti ad argomenti di attualità. Tanto che, la settimana scorsa, durante un dibattito pubblico, al romanziere spagnolo Arturo Perez-Reverte, che proclamava la fine dell’Occidente, non meritevole nemmeno di compassione, rispondeva di riporre tutte le sue speranze nella scuola.

Professore, mostra un ottimismo davvero sorprendente.
«Beh, è un ottimismo di lunga durata. Ormai quelli che cambiano il mondo sono coloro che lavorano con il cervello, ci sara sempre più lo sfruttamento delle qualità mentali più che fisiche, non solo per creare rna anche per far funzionare Ie cose. Quindi la scuola non può che essere in primo piano. I professori sono un ceto sofferente, i peggio pagati, dequalificati e quel che si vuole. Però hanno anche grandi responsabilità. Bisognerà inevitabilmente puntare su di loro».

Perciò una riforma della scuola è urgentissima.
«Riformare la scuola significa riformare tutta la società. Perché altrimenti ci saranno sempre differenze abissali tra un istituto dello Zen a Palermo e uno del centro di Milano. Bisogna creare attorno alla scuola e ai docenti altri operatori che diano loro aiuto. Certo, questo puo apparire rivoluzionario e pure utopistico, comporta un costo enorme in denaro e nessun partito sottoscriverebbe un tale programma, visto che anzi tutti tendono ad accorciare il percorso scolastico. Io invece lo allungherei, fornendo anche spazi, biblioteche, strumenti, insegnanti di supporto per il pomenggio».

Le riforme di Berlinguer e della Moratti sono state un disastro.
«Berlinguer ha squalificato l’Universita, abrogato i concorsi di accesso alla scuola e inventato le famigerate Siss. Ha rovinato un’intera generazione».

Cosa ne pensa dei primi provvedimenti della GeImini?
«Dell’obbligo del grembiule nulla di particolare: puo essere utile per i più piccoli. Non mi piace, invece, il ritorno al maestro unico. Poteva andare bene nel passato, quando molte maestre hanno compiuto atti di eroismo operando in situazioni disagiate. Ma adesso è fuori dal tempo. Ci sono classi con disabili, con extracomunitari che non conoscono l’italiano, tutti insieme. Una persona da sola si spara…».

Una motivazione è economica. Meglio pagare bene cento persone che male mille.
«Se il problema principale sono i soldi, facciamo prima a chiudere le scuole per dieci anni.. Per risparmiare si potrebbero intanto evitare gli invii di truppe all’estero».

Però quello della stipendio è un grande problema. Ha visto in tv la hostess dell’Alitalia sdegnata per essere stata paragonata a un insegnante di liceo?
«Con tutto il rispetto per la reazione istintiva di una persona che forse non sa nulla del mondo della scuola, il tono era sbagliato. Ma il problema è più complesso. Sono venute meno quelle forze politiche, specie di sinistra, e sindacali in grado di far ragionare i loro simpatizzanti o iscritti in termini di interessi generali. Ogni segmento pensa ai fatti propri e chi se ne importa dell’insieme».

Ormai i contenuti sono diventati un optional, annegati in un mare di pedagogia.
«Sono molto ostile al vaniloquio pedagogico. Nelle Siss, per fortuna ora interrotte, per un anno non si faceva altro che chiacchiericcio sui metodi di insegnamento. Come insegnare la teoria del nuoto. Assurdo: si impara a insegnare appunto insegnando. Ridiamo piuttosto la centralità ai contenuti, alla trasmissione di un sapere specifico».

Nel suo pamphlet Filologia e libertà invoca per esempio l’insegnamento del latino dei moderni.
«E un mio pallino. Il latino non e mica finito con Cassiodoro, ha avuto una vitalità lunghissima, Erasmo, Galileo, Leibnitz, Newton, Kant e tanti altri scrivevano cose fondamentali in latino. Perché a scuola i professori devono spiegare come la lingua di Plauto sia diversa da quella di Tacito e non sprecano una parola sulle differenze, per esempio, con Bacone? Oppure perche nessuno si occupa della Vulgata di Girolamo, un fior di latino assai diverso da quello classico? E’ una mentalità davvero angusta. Eppure gli studenti si divertirebbero».

Prendendo spunto dal titolo del convegno, una buona ricetta per la scuola potrebbe essere più ordine gentiliano e meno sovversione sessantottina?
«La riforma di Gentile è stata rivoluzionana, uno svecchiamento del modello ottocentesco, e non ha nulla a che vedere con il fascismo, che diventa regime solo dopo il delitto Matteotti. Tanto è vero che è stata pensata insieme a Croce, allora ministro del governo Giolitti. Del resto, anche Gramsci nei Quaderni ne indicava i lati positivi. La vera riforma fascista è stata quella di Bottai, della scuola media unica. Una riforma necessaria (poi annullata da Badoglio come tutti i provvedimenti del regime, anche quelli giusti) che ci siamo dovuti reinventare. Il ‘68 invece è stato un gigantesco movimento liberale, che ha finito per approdare all’anarchia, alla nullità del facciamo quello che ci pare. I sessantottini si dicevano marxisti o maoisti soltanto perché quello era l’unico linguaggio rivoluzionario a disposizione. Ora per fortuna sono in pensione".

"Sono molto ostile al vaniloquio pedagogico". Che dire? Canfora mi regala un bellissimo motto.